Sinai: un migliaio i profughi prigionieri. Don Zerai: urgente mobilitarsi per liberarli
Non si sblocca la situazione nel territorio del Sinai, al confine tra Egitto e Israele,
per i profughi eritrei in balia dei predoni che controllano il deserto. Centinaia
di uomini e donne, anche incinte, vengono tenuti a lungo prigionieri, in condizioni
disumane, in attesa che qualcuno paghi per loro il riscatto chiesto dai rapitori.
Una situazione che rimane per lo più ignorata dai mass media e disattesa dai governi
coinvolti, nonostante gli appelli lanciati alla comunità internazionale. Per un aggiornamento
sulla situazione di questi profughi, Adriana Masotti ha sentito don Mussie
Zerai, il sacerdote che tramite telefono satellitare riesce a mantenersi in contatto
con alcuni di loro:
R. – Non è che
l’attuale situazione sia cambiata molto da qualche mese o un anno a questa parte.
Ora, ci sono circa un migliaio di ostaggi e aumentano, nonostante sia diminuito il
flusso di persone che vogliono andare in Israele. Quello che sta avvenendo adesso,
invece, è che le persone vengono sequestrate in Sudan, negli stessi campi profughi,
come quello di Shagarab. Oppure, vengono vendute già al confine con il Sudan, a volte
anche con la complicità della polizia sudanese che li carica sulle macchine dicendo
di accompagnarli ai campi profughi, e invece consegnanandoli poi nelle mani dei trafficanti.
Accadono questo genere di manovre per costringere queste persone ad arrivare nel Sinai
dove poi possono essere ricattate. Quindi, il ricatto inizia già in territorio sudanese,
perché i primi trafficanti che li prendono sono misti, tra sudanesi ed eritrei, e
chiedono somme intorno a 10 mila dollari. E se i familiari non sborsano queste cifre,
le persone vengono rivendute ai predoni del Sinai. Quindi, il traffico si è allargato
nei campi profughi in Sudan o proprio al confine tra Eritrea e Sudan e questo perché
c’è la totale mancanza di garanzia della sicurezza perfino nei campi profughi, che
compete al governo sudanese. Così, noi continuiamo a ricevere telefonate con richieste
di aiuto sia dai familiari sia direttamente dagli ostaggi, che chiedono aiuto per
pagare il riscatto.
D. – Lei ha detto che questa situazione si sta allargando
ancora di più. Ma a chi giova che questa situazione non si risolva? Quali e quanti
sono gli interessi in gioco?
R. – Da una parte, c’è il fatto che esiste un
Sinai fuori controllo da parte del governo egiziano, perché evidentemente lì c’è di
tutto. Sappiamo che lì i profughi vengono tenuti perfino negli scantinati delle ville
che questi trafficanti si sono costruiti nelle stesse città di Rafah, o al-Arish…
La polizia egiziana non riesce a controllarli e non riesce a impedire questo. A chi
giova? Giova ai trafficanti. Poi, c’è la corruzione spaventosa sia in Egitto sia in
Sudan e quindi i trafficanti hanno vita facile. Qui, invece, servirebbe un impegno
della comunità internazionale, come richiamato dal Santo Padre nel novembre scorso
quando ha incontrato i partecipanti all’assemblea dell’Interpol, affermando che serve
un impegno anche della polizia internazionale contro questi orribili traffici che
sono la negazione della dignità umana. Qui, viene negato l’uomo in quanto tale, perché
viene ridotto allo stato animale, di bestia, perché queste sono le condizioni in cui
vengono tenuti gli ostaggi: incatenati, spesso costretti a mangiare erba, come fossero
capre, pecore… E’ questo quello che avviene in Sinai. Bruciati, marchiati e abusati
in tutti i sensi: questo è quanto sta avvenendo…
D. – Alcune organizzazioni
umanitarie hanno, a suo tempo, denunciato quanto sta avvenendo nel Sinai. Si sono
anche mobilitate, ma senza risultati. Che cosa potrebbe fare di più l’opinione pubblica
per la liberazione di questa gente?
R. – L’opinione pubblica deve continuare
a richiamare i propri governi a impegnarsi perché in Egitto, in Sudan e anche in Eritrea
e in Etiopia tutti questi movimenti di traffico di esseri umani e di organi abbiano
fine. Ci siamo rivolti a tante sedi istituzionali, soprattutto al Parlamento europeo.
Nello scorso mese di giugno, ci siamo recati anche al Dipartimento di Stato americano
proprio per chiedere l’impegno degli Stati Uniti, affinché facessero pressione su
questi governi e avere a disposizione uomini per combattere questi traffici.
D.
– Anche Israele potrebbe fare di più?
R. – Sì, potrebbe fare molto di più,
perché anche le autorità israeliane hanno ottimi contatti nel Sinai, conoscono il
territorio e quindi potrebbero fare molto di più di quello che stanno facendo. Infatti,
Israele si è limitato a costruire il muro che separa l’Egitto da Israele, ma non basta
un muro: quello che accade al di là del muro non significa che non li riguarda solo
perché è al di là del muro, perché riguarda esseri umani, riguarda tutta l’umanità.
Ci tocca tutti. Per questo, è bene che anche i mass media si impegnino di più per
informare, per combattere anche con l’informazione questo traffico.