Fmi: l'accordo sul fiscal cliff non basta per risolvere i problemi legati al debito
Usa
Il Fondo monetario internazionale gela l’euforia dei mercati dopo l’approvazione dell'accordo
sul fiscal cliff, per evitare il cosiddetto “baratro fiscale” negli Stati Uniti, che
avrebbe portato ad un innalzamento delle tasse e a pesanti tagli di spesa. Bene invece
le piazze asiatiche Tokyo chiude a +2,8 per cento, tornando ai livelli precedenti
il sisma del 2011. Intanto sul fronte europeo arriva un nuovo allarme disoccupazione.
Cecilia Seppia:
L'accordo approvato
dagli Stati Uniti per evitare il fiscal cliff non basta per risolvere i problemi legati
al debito e al deficit americano. A lanciare l’allarme è il Fmi secondo cui c’è ancora
molto da fare per riportare i conti pubblici ad un livello di sostenibilità senza
compromettere la ripresa, che appare ancora fragile. Per farlo dice il portavoce dell’organizzazione,
Gerry Rice serve un piano che assicuri sia un aumento delle entrate sia il contenimento
della spesa nel medio termine. La notizia di fatto gela i mercati: il tonfo è per
le borse del Vecchio Continente che tentano di recuperare terreno in chiusura. Corre
invece Tokyo che guadagna il 2,8 per cento. Altro dato positivo lo spread tra Btp
e Bund tedeschi che scende a quota 275 punti, mai così basso dal 2011. A preoccupare
però restano i dati sulla disoccupazione: secondo uno studio di Ernst&Young, una delle
quattro maggiori società di revisione mondiali, i 17 Stati dell'Eurozona raggiungeranno
un picco di 20 milioni di senza lavoro nel 2013: a rischio soprattutto Grecia, Spagna
e Portogallo, timori anche per l’Italia.Incolume la Germania dove il tasso di disoccupazione
è sceso al 6,8 per cento.
La crisi globale, dunque, continua a influenzare
in maniera diversa le economie dei Paesi. Una crisi iniziata tra il 2007 e il 2008,
con i mutui subprime negli Stati Uniti, e proseguita in Europa con i debiti sovrani.
Il tutto, tra l’allarme dello spread tra titoli di Paesi europei o il cosiddetto fiscal
cliff, il baratro fiscale appena scongiurato a Washington. Ma cosa è cambiato nel
resto del mondo? Nell’intervista di Fausta Speranza, lo spiega il prof.
Giovanni Ferri, docente di prospettive macroeconomiche globali all’Università
Luiss:
R. – Prima del
2007/2008, la crescita dei Paesi emergenti –si parla spesso dei Brics, appunto i quattro,
Brasile, Russia, India, Cina, poi alcuni aggiungono il Sudafrica – marciava a ritmi
sostenuti trainati dalle esportazioni. Quindi, avevamo una globalizzazione con una
forza produttiva che si stava sviluppando a ritmi molto sostenuti nelle economie emergenti
e una domanda concentrata invece nei Paesi ricchi. La domanda dei Paesi europei, nel
loro complesso, non era squilibrata, perché non c’era uno squilibrio nei conti con
l’estero per l’area dell’euro, mentre c’erano forti squilibri da parte degli Stati
Uniti. Oggi i Paesi emergenti continuano a crescere nonostante le economie avanzate
siano in crisi e nonostante, quindi, la domanda si sia ridotta fortemente negli Stati
Uniti e ancor più in Europa, perché hanno trovato un modo di far crescere la domanda
interna. Stanno crescendo molto anche i flussi commerciali tra di loro, tra i Paesi
emergenti.
D. – Guardiamo un po’ più da vicino l’Asia …
R. – La Cina
ha avuto un raffreddamento abbastanza significativo nel corso del 2012, diversamente
da quanto è avvenuto in Europa e negli Stati Uniti: non si registra decrescita, non
c’è una caduta nel prodotto interno lordo; c’è solo un rallentamento nei ritmi di
crescita. Per la Cina, che da molti anni cresceva al 10 per cento, il ritmo di crescita
si è abbassato fino al 5 per cento. Ma adesso è risalito, è intorno al 7-8 per cento.
Nel 2012 si sono avuti segni di rallentamento abbastanza netti, si è avuta anche la
sensazione che ci potessero essere degli squilibri interni alla Cina, ad esempio,
con un mercato immobiliare sopravvalutato, che era stato gonfiato da una forte crescita
del credito. I prezzi hanno incominciato a scendere sul mercato immobiliare, cosa
che non si era mai vista nell’esperienza degli ultimi decenni della Cina, ma adesso,
proprio nelle ultime settimane, sono arrivati segnali che cambiano quel segno. Gli
ultimi segnali che ho visto sono di un recupero della crescita in Cina, anche se non
sarà più al 10 per cento. E ovviamente, ormai, la Cina è diventata la seconda economia
più grande del mondo e dunque la crescita della Cina determina anche importanti conseguenze
per i Paesi con cui intrattiene scambi commerciali.
D. – Qual è invece la situazione
dell’Africa?
R. – Occorre distinguere quantomeno la parte Nord dal Cono australe.
Nella parte Nord, oltre alle conseguenze della crisi negli Stati Uniti e in Europa
e della crisi globale, hanno avuto forti effetti i fenomeni di instabilità politica,
l’instabilità dei regimi, quella che è definita la Primavera araba. Le conseguenze
nell’immediato sono negative, dal punto di vista della dinamica economica. Poi, potranno
essere anche molto positive se avranno degli sviluppi positivi in termini di determinare
regimi più liberi, più aperti al commercio con l’estero. Per quanto riguarda l’Africa
australe, abbiamo invece il ruolo del Sudafrica che si conferma come un’economia abbastanza
dinamica, anche se pure là si sono avuto dei segni di fragilità politica che potrebbero,
a lungo andare, avere anche conseguenze negative. Per l’Africa credo che vada fatta
una considerazione anche alla luce delle politiche internazionali, di stampo mercantile:
penso alla Cina arrivata nel Continente – questo vale in parte anche per l’America
Latina – con le grandi imprese cinesi e gli accordi commerciali bilaterali che hanno
portato alla concessione dell’uso di risorse naturali in cambio di interventi per
lo più di natura infrastrutturale o sfruttamento delle risorse ambientali in senso
lato, anche dal punto di vista turistico.