2012-12-22 15:37:16

Il 2012 e la crisi economica. L'analisi di Riccardo Moro


2012: un anno vissuto in tutto il mondo all’ombra della crisi economica. Tante e pesantissime le ricadute sociali: dall’aumento della povertà e della disoccupazione all’incremento dei senza fissa dimora, fino all’abbattimento delle tutele sociali. E’ stata l’Europa a soffrire maggiormente, ma l’onda lunga della crisi si è abbattuta su tutti i continenti. Salvatore Sabatino ha chiesto un’analisi all’economista Riccardo Moro, a cominciare dal Vecchio continente:RealAudioMP3

R. – Il bilancio sull’Europa è sempre un bilancio difficile da fare, pieno di punti interrogativi, perché continua la tensione tra la richiesta di forte rigore fiscale, promossa soprattutto dal governo tedesco, e la richiesta di politiche che diano stimoli espansivi, esattamente per produrre una ripresa e vincere la disoccupazione. Nel momento in cui lo Stato produce stimoli espansivi, deve spendere di più e allora deve indebitarsi; nel momento in cui lo Stato deve evitare di indebitarsi per ridurre la sua esposizione sui mercati, deve ridurre la possibilità di esprimere stimoli. In questo momento, ha prevalso la politica tedesca, anche se molto meno che non in passato, e di conseguenza abbiamo tuttora una vulnerabilità sociale pesante.

D. – Non bisogna dimenticare che la crisi è iniziata negli Stati Uniti, impegnati – per la maggior parte del 2012 – nella campagna elettorale che poi ha portato alla rielezione di Obama; Stati Uniti che hanno un po’ sottovalutato la crisi. Oggi, si trovano di fronte al possibile mancato accordo sul "fiscal cliff": quali effetti ha avuto e potrà avere sull’economia americana, la crisi?

R. – Più che sottovalutare la crisi, gli Stati Uniti hanno provocato la crisi con la gestione e l’amministrazione precedente, con politiche di deregulation dei mercati finanziari, che francamente erano dissennate, che poi hanno portato a quello che tutti conosciamo. Oggi bisogna dire che in quattro anni, pur con i vincoli da parte del partito repubblicano, Obama ha dato degli stimoli espansivi: non per nulla li paga in termini di esposizione debitoria. Oggi, la sfida è di poter continuare quelle politiche che non è possibile mettere in atto se non c’è un accordo in parlamento. Adesso, si dovrà veder se gli Stati Uniti riusciranno in questi giorni a raggiungere l’intesa tra democratici e repubblicani, proprio per superare il cosiddetto "fiscal cliff", cioè quella voragine che potrebbe aprirsi nel momento in cui l’intesa non ci fosse, perché entrerebbero in atto alcuni sistemi automatici di riduzione della spesa che impedirebbe, appunto, di finanziare tutto ciò che fino a questo momento gli Stati Uniti hanno fatto di positivo. La speranza, naturalmente, è che l’accordo si crei. Diciamo questo, in sintesi: sicuramente gli Stati Uniti godono di migliori strumenti di stimolo espansivo, che hanno avuto effetto e che speriamo, con l’accordo, possano durare anche per l’anno successivo. Dall’altra parte, complessivamente comunque godono di molte meno tutele rispetto a quelle che comunque in Europa sono state messe in atto per chi è in difficoltà.

D. – Dall’altra parte, ci sono i Paesi in via di sviluppo – capofila la Cina – che invece continuano a essere in espansione anche se la crisi inizia a sentirsi anche lì. L’asse economico mondiale si è davvero spostato ad Oriente? E quanto la crisi ha impattato su questi Paesi?

R. – Io direi poco, nel senso che certamente ha impattato riducendo le importazioni rispetto al trend precedente. C’è, però, una dinamica positiva. La cosa interessante è che molte di queste aree sono più integrate al loro interno rispetto al passato, e sono integrate fra loro senza aver bisogno dell’Europa e degli Stati Uniti. Se in passato le economie di queste aree dipendevano dalla capacità di vendere a noi materie prime e manifatture poco qualificate, oggi c’è un aumento dei mercati interni di queste aree, che fa sì che i loro trend economici spesso dipendano dagli stimoli che esistono lì, piuttosto che non da quello che noi diamo loro.

D. – E infine, l’Africa: un continente che vive praticamente all’ombra di tutto, sulle pagine dei giornali solo – purtroppo – per le guerre o per le carestie. Ma la crisi ha impattato anche sul continente africano?

R. – Decisamente sì. Non dimenticherei nemmeno l’area del Medio Oriente. In realtà, abbiamo queste due aree che sono, per certi aspetti, un po’ dimenticate, soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente e il Nord Africa, che non sono esportatori di petrolio, o almeno non sono grandi esportatori di petrolio. Sono certamente le aree che continuano a fare più fatica. Anche in questo caso direi, però, che sta nascendo un fenomeno per cui c’è una relazione economica molto più consistente rispetto al passato, con aree diverse da Europa, Stati Uniti e dallo stesso Giappone. Certamente, c’è un ruolo di protagonismo della Cina, ma ad esempio in una parte dei Paesi africani c’è una relazione anche con Paesi dell’America Latina: il Brasile, ad esempio, sta arrivando nei Paesi lusofoni… Tutto questo crea una condizione per cui le relazioni internazionali di questi Paesi possono essere costruite con aree che non stanno sentendo la crisi come la sentiamo noi. E’ vero, però, che le caratteristiche della povertà locale sono talmente forti, che richiedono tuttora politiche dedicate al loro interno, a prescindere da quelle che siano le condizioni internazionali.







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