Libano, l'impatto della crisi siriana. Parsi: attenzione al radicalismo sunnita
La crisi siriana si riflette anche in Libano dove non si allentano le tensioni, soprattutto
a Tripoli, tra oppositori e sostenitori di Assad. Intanto il Paese continua ad accogliere
il flusso di profughi che arriva da Damasco. Ma qual è la posizione dei cristiani
nel contesto politico libanese? Massimiliano Menichetti lo ha chiesto a Vittorio
Parsi, docente di relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano:
R. - Diciamo
che i cristiani hanno perso la loro lotta per l’egemonia ai tempi della guerra civile.
L’omicidio di Jemaiel segna la fine dell’aspirazione maronita di costruire un Libano
egemonizzato con la forza dalla maggioranza relativa o dalla minoranza allora più
importante, quella cristiana. Oggi, i cristiani sono sostanzialmente la seconda minoranza
del Paese. Vediamo cosa stanno facendo: hanno rinunciato a esercitare il potere in
termini di prospettiva di comando e si sono limitati a una posizione di protezione.
E infatti, vediamo che i cristiani sono schierati sui due fronti in cui si divide
la scenario politico libanese: quello pro-sciita e quello pro-sunnita. E questa è
comunque la scelta che implica anche il non poter vincere comunque.
D. - Come
influsice la crisi siriana sul Libano, dato che il Libano è uno dei Paesi che sta
ricevendo tra l’altro i profughi ed è uno Stato piccolo ma di grande equilibrio nell’area?
R.
- Molto pesantemente, nel senso che nel Libano si condensano due elementi critici.
Da un lato, c’è la progressiva crisi delle aspirazioni egemoniche iraniana sul Levante,
che proprio attraverso il nodo siriano trova la prima grande débâcle dopo il
successo conseguito in Iraq e quello conseguito in Afghanistan. Questo, in qualche
modo, lo vediamo attraverso la difficoltà del movimento politico di Hezbollah che
è legato molto più all’Iran che non alla Siria. E dall’altra parte, però, c’è l’altra
fase critica che è rappresentata dal radicalismo sunnita. Non dimentichiamo che l’islam
più radicale è quello sunnita, non quello sciita, e che in alcune parti per lo meno
aspira a poter fare i conti con questa forte presenza sciita - che è cresciuta anche
politicamente negli ultimi anni - e di tornare protagonista della vita politica. Questo
lo vediamo plasticamente purtroppo rappresentato negli scontri di Tripoli in Libano,
dove sciiti e sunniti libanesi hanno portato all’interno del Paese lo scontro siriano.
D.
- Quando si parla di movimenti, di primavere arabe, si parla quasi esclusivamente
di processo di democrazia. Quanto conta in realtà la centralità delle risorse minerarie
come petrolio e gas in queste aree?
R. - Hanno una rilevanza importante per
due motivi. Da un lato, in termini di attenzione degli attori esterni che continuano
ad avere un interesse sul controllo di queste risorse - soprattutto per la parte che
riguarda l’area del Golfo. Dall’altra, anche in termini di capacità interne di sostentamento,
perché possiamo vedere che i Paesi dell’area che hanno resistito allo shock delle
rivoluzioni, le hanno anticipate, le hanno bloccate sul nascere o le hanno represse,
sono i Paesi produttori di petrolio o di gas: quelli cioè che avendo risorse importanti
per comprare in termini tecnici il consenso della popolazione, sono riusciti a mantenere
le schema di funzionamento. Invece, sono saltati in aria quei regimi che non avevano
questa situazione. Certo l’eccezione è la Libia, ma va anche detto che quello che
è accaduto in questo Paese è anzitutto da attribuire alla una guerra civile tra Tripolitania
e Cirenaica.