Campagna della Caritas romana: ridare dignità ai poveri in carcere
“Restituiamo dignità ai poveri in carcere!”: è lo slogan della campagna di sensibilizzazione
che è stata lanciata giovedì con la presentazione del libro fotografico in due volumi
intitolato “Uhuru-Libertà” di Francesco Delogu e Stefano Montesi, corredato da scritti
dei detenuti di Rebibbia. La presentazione si è svolta presso la nostra emittente
con la partecipazione, tra gli altri, di mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas
diocesana di Roma, e don Sandro Spriano, responsabile Area Carcere della Caritas.
Fausta Speranza ha intervistato mons. Enrico Feroci:
R. – Ci sono
67mila detenuti con 45mila posti nelle carceri e questo già è un qualcosa che ci deve
far riflettere. Dal 2000 ad oggi abbiamo avuto 750 suicidi in carcere e 96 tra le
file della polizia penitenziaria. Vogliamo riportare l’attenzione su questo problema
che è un problema enorme ed è un problema di dignità di una società.
D. - Chi
sono i “poveri” delle carceri di cui parla la campagna?
R. – Sono quelli che
sembra che siano nati perché possano andare in carcere. Sono quelli che senz’altro
scontano la pena dal primo giorno fino all’ultimo, anzi vengono ripresi successivamente
se non hanno scontato tutta la pena, e noi li ritroviamo lì, dove non hanno niente.
L’anno scorso la Caritas ha fatto una campagna per tutte le parrocchie di Roma per
chiedere che venissero dati indumenti intimi. Uno non ci pensa mai a questo: dà un
cappotto, un paio jeans, un paio di scarpe ma queste persone entrano così come stanno
vestite e gli viene dato solamente un paio di mutande o una maglietta che gli dovrebbero
bastare. Si devono comprare da soli qualcosa e, se non hanno soldi, rimangono con
i vestiti che hanno addosso nel giorno in cui sono stati arrestati. La campagna chiede
di ridare dignità alla persona, di assicurare almeno il minimo indispensabile, perché
la persona si senta veramente persona, non più un numero buttato lì che sta aspettando
di potere un domani ricominciare a vivere.
D. – La strada non può essere quella
della impunità, nel senso che nessuno va più in carcere…
R. – Certamente. Il
carcere però non può essere considerato una vendetta, non dobbiamo vendicarci di chi
ha sbagliato. Dobbiamo trovare gli strumenti ed è difficile questo. Io mi rendo conto
che non è un discorso semplice ma dobbiamo trovare percorsi per far sì che le persone,
se si sono rese conto del male che hanno fatto, possano non solo riparare il male
fatto ma riprendere anche un cammino di vicinanza di nuovo in questa nostra società.
La deresponsabilizzazione - diceva Gandhi - è la forma più grande di violenza che
esista.
D. – La Chiesa sta sempre dalla parte degli umili, il Papa è andato
nelle carceri e la Caritas e i cappellani sono vicini in prima linea…
R. -
L’anno scorso a novembre il Papa è andato nel carcere di Rebibbia. E il 23 dicembre
ci andrà di nuovo il cardinale vicario. Noi siamo stati sempre presenti davanti alla
problematica, l’abbiamo sempre denunciata.
D. – Che appello lanciare alla politica?
R.
– L’appello che faccio continuamente è che in questa nostra società la persona sia
considerata un individuo avente diritti. E’ ovvio che ha anche i suoi doveri, ma non
deve essere considerato solo un cliente, un cliente positivo o negativo, scomodo da
eliminare, oppure un cliente che devo venerare, ma una persona in quanto tale che
è soggetto di precisi diritti. Credo che la società debba ricordare questo per tutti,
dal primo all’ultimo, e dall’inizio alla fine della vita.
Al microfono di Fausta
Speranza, don Sandro Spriano sintetizza una delle tante esperienze possibili
di incontro e di riconciliazione con l’umanità racchiusa nel mondo delle carceri promosse
e portate avanti dalla Caritas e dai volontari. Racconta della moglie di un carabiniere
ucciso di recente che ha accettato di recarsi in visita a chi si è macchiato dell’orrendo
crimine:
R. – Oggi pomeriggio
questa donna viene con me a portare la sua testimonianza alla celebrazione eucaristica
che facciamo in carcere. Lei non chiede l’ergastolo per chi ha brutalmente ucciso
il marito carabiniere, morto dopo sette mesi in coma. Piuttosto lei vuole incontrare
questo ragazzo – ha già incontrato i suoi genitori – e dirgli: “Io mi preoccupo adesso
che tu possa crescere con modalità diverse, forse, rispetto a quelle che ti hanno
portato a compiere quel gesto orribile”. Quindi lei è su un percorso di riconciliazione,
che è quello che tutti vorremmo. E lo vorremmo anche per la sicurezza delle nostre
città. Perché se non facciamo questo, chi entra in carcere, poi, esce più delinquente
di prima.