2012-12-20 15:40:59

Campagna della Caritas romana: ridare dignità ai poveri in carcere


“Restituiamo dignità ai poveri in carcere!”: è lo slogan della campagna di sensibilizzazione che è stata lanciata giovedì con la presentazione del libro fotografico in due volumi intitolato “Uhuru-Libertà” di Francesco Delogu e Stefano Montesi, corredato da scritti dei detenuti di Rebibbia. La presentazione si è svolta presso la nostra emittente con la partecipazione, tra gli altri, di mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas diocesana di Roma, e don Sandro Spriano, responsabile Area Carcere della Caritas. Fausta Speranza ha intervistato mons. Enrico Feroci:RealAudioMP3

R. – Ci sono 67mila detenuti con 45mila posti nelle carceri e questo già è un qualcosa che ci deve far riflettere. Dal 2000 ad oggi abbiamo avuto 750 suicidi in carcere e 96 tra le file della polizia penitenziaria. Vogliamo riportare l’attenzione su questo problema che è un problema enorme ed è un problema di dignità di una società.

D. - Chi sono i “poveri” delle carceri di cui parla la campagna?

R. – Sono quelli che sembra che siano nati perché possano andare in carcere. Sono quelli che senz’altro scontano la pena dal primo giorno fino all’ultimo, anzi vengono ripresi successivamente se non hanno scontato tutta la pena, e noi li ritroviamo lì, dove non hanno niente. L’anno scorso la Caritas ha fatto una campagna per tutte le parrocchie di Roma per chiedere che venissero dati indumenti intimi. Uno non ci pensa mai a questo: dà un cappotto, un paio jeans, un paio di scarpe ma queste persone entrano così come stanno vestite e gli viene dato solamente un paio di mutande o una maglietta che gli dovrebbero bastare. Si devono comprare da soli qualcosa e, se non hanno soldi, rimangono con i vestiti che hanno addosso nel giorno in cui sono stati arrestati. La campagna chiede di ridare dignità alla persona, di assicurare almeno il minimo indispensabile, perché la persona si senta veramente persona, non più un numero buttato lì che sta aspettando di potere un domani ricominciare a vivere.

D. – La strada non può essere quella della impunità, nel senso che nessuno va più in carcere…

R. – Certamente. Il carcere però non può essere considerato una vendetta, non dobbiamo vendicarci di chi ha sbagliato. Dobbiamo trovare gli strumenti ed è difficile questo. Io mi rendo conto che non è un discorso semplice ma dobbiamo trovare percorsi per far sì che le persone, se si sono rese conto del male che hanno fatto, possano non solo riparare il male fatto ma riprendere anche un cammino di vicinanza di nuovo in questa nostra società. La deresponsabilizzazione - diceva Gandhi - è la forma più grande di violenza che esista.

D. – La Chiesa sta sempre dalla parte degli umili, il Papa è andato nelle carceri e la Caritas e i cappellani sono vicini in prima linea…

R. - L’anno scorso a novembre il Papa è andato nel carcere di Rebibbia. E il 23 dicembre ci andrà di nuovo il cardinale vicario. Noi siamo stati sempre presenti davanti alla problematica, l’abbiamo sempre denunciata.

D. – Che appello lanciare alla politica?

R. – L’appello che faccio continuamente è che in questa nostra società la persona sia considerata un individuo avente diritti. E’ ovvio che ha anche i suoi doveri, ma non deve essere considerato solo un cliente, un cliente positivo o negativo, scomodo da eliminare, oppure un cliente che devo venerare, ma una persona in quanto tale che è soggetto di precisi diritti. Credo che la società debba ricordare questo per tutti, dal primo all’ultimo, e dall’inizio alla fine della vita.

Al microfono di Fausta Speranza, don Sandro Spriano sintetizza una delle tante esperienze possibili di incontro e di riconciliazione con l’umanità racchiusa nel mondo delle carceri promosse e portate avanti dalla Caritas e dai volontari. Racconta della moglie di un carabiniere ucciso di recente che ha accettato di recarsi in visita a chi si è macchiato dell’orrendo crimine:RealAudioMP3

R. – Oggi pomeriggio questa donna viene con me a portare la sua testimonianza alla celebrazione eucaristica che facciamo in carcere. Lei non chiede l’ergastolo per chi ha brutalmente ucciso il marito carabiniere, morto dopo sette mesi in coma. Piuttosto lei vuole incontrare questo ragazzo – ha già incontrato i suoi genitori – e dirgli: “Io mi preoccupo adesso che tu possa crescere con modalità diverse, forse, rispetto a quelle che ti hanno portato a compiere quel gesto orribile”. Quindi lei è su un percorso di riconciliazione, che è quello che tutti vorremmo. E lo vorremmo anche per la sicurezza delle nostre città. Perché se non facciamo questo, chi entra in carcere, poi, esce più delinquente di prima.

Ultimo aggiornamento: 22 dicembre 2012







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