Afghanistan. Mine antiuomo uccidono 10 bambine. Emergency: la crisi rallenta la bonifica
La notizia stamane della morte di 10 bambine e ferimento di altre due in Afghanistan,
vittime di una mina inesplosa, richiama drammaticamente l’urgenza di porre al bando
questi micidiali ordigni che vanno a colpire le popolazioni civili, per decenni dopo
la fine dei conflitti e l’impegno della comunità internazionale per disinnescarle.
Il servizio di Roberta Gisotti:
Decine di milioni
di mine attive in 80 Paesi, per lo più in via di sviluppo. I Paesi più colpiti l’Afghanistan,
Mozambico, Angola, Cambogia, Ex Jugoslavia, Rwanda. Tra i maggiori produttori Stati
Uniti, Cina, Russia, India. 200 milioni di questi ordigni depositati negli arsenali
militari. Una mina ogni 48 abitanti del pianeta. Una vittima ogni 20 minuti, al 90%
civili, al 20% bambini, 26 mila morti l’anno. Quale commento di fronte a queste ennesime
piccole vittime? L'opinione di Paolo Busoni, storico militare del direttivo
di Emergency:
R. - Quello di oggi è proprio l’ennesimo caso. Una quotidianità
fatta di un massacro a rallentatore, un genocidio a rallentatore. Quello che è accaduto
oggi, probabilmente è stato provocato da un ordigno anticarro lasciato sul territorio
di uno di quei Paesi dove la guerra va avanti da oltre trenta anni.
D. - A
che punto siamo della campagna per il bando delle mine antiuomo e soprattutto nell’impegno
della comunità internazionale per disinnescarle?
R. - Siamo a un punto di empasse.
Dopo il grande slancio successivo alla firma del Trattato - 1998 primi anni Duemila
- in realtà la tensione si è molto raffreddata. Adesso il mondo è praticamente per
intero firmatario del documento – sono 162 i Paesi che lo hanno siglato – ma restano
comunque fuori i più grandi produttori di armi, quindi la Russia, la Cina, gli stessi
Stati Uniti e anche l’Egitto. Quindi, la circolazione di queste armi è ancora molto
grande. Inoltre, con la crisi economica vengono meno dei fondi che sono destinati
alla pulizia, cioè allo sminamento. I molti Paesi che hanno avuto questa sciagura
vedono i programmi di bonifica rallentati, addirittura sospesi o terminati. Queste
sono eredità che rimarranno sul terreno per centinaia di anni.
D. - Lei è uno
storico militare. Qual è, in breve, la storia delle mine antiuomo? Vengono meno utilizzate
o dobbiamo invece scoprire che c’è un rilancio?
R. - Le mine sono sempre esistite.
Dalla Prima Guerra mondiale in poi, però, c’è stata un’evoluzione dovuta al fatto
che le tecniche di produzione sono diventate industriali, e di conseguenza, siamo
arrivati a numeri pazzeschi: 120 milioni di mine stimate nel territorio del mondo,
oggetti che costano relativamente poco, normalmente non progettati per uccidere ma
per menomare, quindi per pesare molto sull’economia del Paese dove sono state disseminate.
Oggi, siamo in una situazione di stallo che però vede l’affacciarsi di sostituti,
nel senso che le armi hanno un ciclo di vita abbastanza breve, quindi c’è sempre una
tecnologia nuova. Stiamo molto attenti a quello che potrebbe arrivare sul territorio
e sui terreni di guerra, perché ormai le mine, da un certo punto di vista, sono obsolete
per quanto ce ne siano ancora molte.
D. - Lei dice “Stiamo attenti”. Che cosa
dobbiamo temere?
R. - Dobbiamo temere tutto ciò che in questo momento viene
considerato, con un eufemismo, “non letale”: questo non vuol dire che non uccide,
ma che è poco meno che letale in una certa percentuale di casi e che si sta affacciando
prepotentemente nei territori dove si sperimenta. In questo momento si sperimentano
nuove armi nei conflitti. L’Afghanistan è ad esempio un posto dove dall’una e dall’altra
parte - cioè dai ribelli e dalle truppe della coalizione - sono stati fatti degli
esperimenti. Lo stesso vale per quello che è accaduto in Terra Santa, in Palestina,
al confine con il Libano due anni fa, in Libia l’anno scorso... Dove c’è un territorio
di guerra si sperimenta. E adesso, il nuovo "trend" è quello di usare armi non completamente
letali, il che non vuol dire che salvano le vite, anzi.