Sinai: il dramma dei profughi eritrei rapiti si consuma tra indifferenza e atrocità
Resta drammatica la situazione nel Sinai, dove almeno 750 profughi eritrei sono nelle
mani dei beduini, trafficanti di esseri umani. Una situazione che ormai va avanti
da tempo, ma che rischia di essere dimenticata. Al microfono di Benedetta Capelli,
la presidente dell’ong “Ghandi”, Alganesh Fesseha che da anni lavora per stroncare
questo traffico:
R. – E’ già
una storia dimenticata, secondo me. E questa dimenticanza è veramente pericolosa perché
la gente sta morendo. Questi profughi partono dall’Eritrea per cercare lavoro e arrivano
in Sudan. Una volta lì, vengono presi dai Rashaida – una tribù sudanese-eritrea beduina
– che li vende ai beduini egiziani a una certa cifra – tremila euro, tremila dollari
– e poi quando li hanno comprati, li vendono ad altri beduini egiziani, aumentando
sempre il prezzo fino a quando non arrivano ai confini tra Israele ed Egitto. Qui,
chiedono anche 30, 35 o 50 mila dollari. Adesso, vista la pericolosità del tragitto
ci sono nuove tratte, gli eritrei infatti cercano di andare verso Juba, ma per andarci
passano comunque per Khartoum e così finiscono per ritrovarsi sempre nel campo profughi
di Shagarab, dove vengono rapiti dai Rashaida e poi venduti ai beduini egiziani. Questi
ultimi, li tengono chiedendo un riscatto di 30-50 mila dollari. Chi non può pagare
viene ucciso, ma anche chi ha pagato viene torturato può essere ucciso e poi gettato
in strada. Io sono arrivata dal Sinai ieri notte e ho visto cinque cadaveri buttati
per terra…
D. – Cosa c’è dietro a questo traffico di esseri umani?
R.
– Il denaro. Io ieri ho chiesto a una persona del posto: ci sono quasi 750 persone
prigioniere nelle mani dei beduini, se ognuna di queste dovesse pagasse questa cifra,
o anche di meno, sarebbe una cifra importante. E dove vanno a finire quei soldi? I
soldi vengono usati per comprare armi e droga. Questa è stata la risposta. Io mi domando:
come è possibile che, in una situazione in cui tutti sanno, non si riesca a fermare
questa cosa? Possono esserci diversi motivi politici, però c’è la questione umana
che è terribile! Abbiamo migliaia di donne alle quali è stato tagliato il seno perché
non potevano pagare, hanno tagliato le gambe, le torture che infliggono ai prigionieri
sono terribili…
D. – Come siete riusciti a liberarli, allora?
R. – I
prigionieri ci chiamano: i beduini danno loro il telefono per chiedere il riscatto.
Mi chiamano e io chiedo come stanno e loro mi descrivono la situazione. E se non sono
legati, se hanno la possibilità di andare uno per uno o più di uno per volta in bagno,
mi metto d’accordo chiedendo loro di uscire ad una certa ora. A quell’ora, io mando
alcune persone che li prendono, li nascondono fino a quanto non arrivo con il certificato
delle Nazioni Unite, con la yellow card, che consegno loro e li porto al Cairo.
Finora, siamo riusciti a liberare 150 persone.
D. – Qual è a questo punto l’appello
che lei vuole lanciare alla comunità internazionale?
R. – Stanno morendo migliaia
di ragazzi giovani: per favore, aiutateli! Aiutatemi a fermare questo massacro: è
un vero massacro. C’è gente che sta morendo per nessuna ragione! Io faccio appello
perché vengano salvate delle anime innocenti che non hanno fatto niente, che hanno
soltanto cercato di scappare dalla fame e dalla miseria del loro Paese, e dalla sofferenza.
D.
– C’è una storia particolarmente emblematica che l’ha toccata e che vuole far conoscere
all’opinione pubblica?
R. – La storia più emblematica è l’uccisione di un bambino
di tre anni, che ho trovato nella spazzatura, morto. Vedere un bambino di tre anni
ucciso in quel modo, per me è stato molto shoccante. E’ una cosa inaccettabile e drammatica:
è drammatica! Che colpa ne ha un bambino di tre anni?