L'Onu esorta alla mobilitazione per fronteggiare la carestia in Somalia
Un miliardo di euro: è la cifra chiesta dall’Onu alla comunità internazionale per
aiutare la Somalia a far fronte a eventuali siccità e carestie, come quella che nel
2011 ha provocato decine di migliaia di morti. Sono 3 milioni e 800 mila le persone
che necessitano di aiuto in questo Paese, devastato da una crisi umanitaria tra le
più gravi al mondo e sfiancato da anni di guerra civile. Il miglioramento della situazione
alimentare e la nuova fase politica permettono ora di interrompere il ciclo di crisi
dovute a siccità e conflitti, hanno dichiarato le Nazioni Unite. FrancescaSabatinelli ha intervistato BrunoGeddo, responsabile Acnur (Alto
Commissariato Onu per i rifugiati) per la Somalia:
R. – La situazione
è decisamente migliore. Quello noi diciamo oggi, e che sostiene questa richiesta da
un miliardo di euro, è: “Cambiamo la nostra strategia in Somalia”. In Somalia, c’è
un governo legittimo che ha bisogno di essere sostenuto e che finalmente ha una legittimità
anche agli occhi del popolo somalo. Vediamo se anche le Nazioni Unite possono cambiare
il modus operandi e acquisire maggiore sensibilità e anche maggiore legittimità
agli occhi del popolo somalo. Noi diciamo quindi: invece di dare una risposta alle
crisi quando è troppo tardi, cerchiamo di prevenirle. Questo vuol dire aiutare le
popolazioni ad assorbire gli shock, che possono essere una catastrofe naturale – una
carestia, soprattutto – ma anche una catastrofe prodotta dall’uomo, quindi altre guerre.
Assorbire, quindi, questi shock e riprendersi da essi senza che il loro sistema di
vita né le loro fonti di sostentamento vengano distrutte. Ecco perché, paradossalmente,
pur migliorando la situazione in Somalia si chiedono più soldi: perché vogliamo cambiare
il nostro modo di agire per non trovarci più in una condizione disastrosa come quella
della carestia dell’anno scorso, perché la gente sarà in grado di assorbire meglio
questi traumi, di riprendersi: avranno basi più solide.
D. – Due milioni e
100 mila persone: le Nazioni Unite quantificano in questo numero i somali che attualmente
hanno assolutamente bisogno di sostegno...
R. – Sì, hanno bisogno di sostegno
per potersi ritrovare in una situazione più sicura. Oggi non c’è più la carestia
in Somalia, c’è però ancora emergenza e crisi umanitaria. E aggiungo: ci sono ancora
un milione e 700 mila persone che sono uscite dalla situazione di crisi umanitaria,
ma che non sono ancora completamente autosufficienti, hanno ancora bisogno di un minimo
di supporto per evitare di ricadere in una condizione di crisi umanitaria. Sono tre
milioni e 800 mila persone che ancora necessitano di una qualche forma di assistenza
internazionale.
D. – La nuova situazione politica in Somalia e la cacciata
da Mogadiscio degli Shabaab, in qualche modo, stanno facilitando il lavoro delle Nazioni
Unite?
R. – Diciamo che, come al solito, il quadro in generale dei Paesi in
via di sviluppo, in particolare in Somalia, è misto. Le città – Mogadiscio, certo,
è la capitale – ma le città, i capoluoghi di provincia e di regione sono stati liberati,
come dicono i somali, dalla presenza degli Shabaab. Per un osservatore esterno, quindi,
“non ci sono più gli Shabaab: andate, assistete, aiutate”. In realtà, il livello di
sicurezza in queste città, in questi capoluoghi di regione, non è tale da permettere
automaticamente ai lavoratori umanitari di andare senza rischiare la vita. In realtà,
infatti, sono città all’esterno delle quali gli Shabaab continuano ad essere attivi.
Queste città sono collegate da una rete di strade molto danneggiate, naturalmente,
intorno alle quali si trovano gli Shabaab – che ora non sono più riconoscibili perché
non sono più un esercito convenzionale ma si sono raggruppati in una sorta di guerriglia
asimmetrica o non convenzionale – e attaccano con delle imboscate i convogli umanitari
che percorrono queste strade che collegano queste città. Quindi, in realtà la sicurezza
non è completa, gli Shabaab mantengono delle cellule dormienti all’interno di queste
città, che vengono attivate per compiere attacchi suicidi o attacchi esplosivi contro
i loro obiettivi.
D. – Più di un milione di persone è sfollato all’interno
dei confini somali, e più di un milione di somali si è rifugiato fuori dal Paese:
che ne è di queste persone e come le assistete?
R. – Abbiamo incominciato nel
gennaio di quest’anno un programma di ritorno degli sfollati, cioè le persone che
si sono spostate all’interno del Paese, che hanno dovuto abbandonare le loro residenze
a causa della guerra, delle violazioni dei diritti umani e della carestia. Riusciremo
a far tornare 20 mila persone, soprattutto da Mogadiscio, ai loro villaggi di origine
entro il primo trimestre del 2013. Abbiamo imparato moltissimo da questo programma
di ritorno: l’idea è di applicarlo eventualmente - quando ci saranno le condizioni
- anche al ritorno dei rifugiati dall’Etiopia e dal Kenya, ce ne sono un milione nei
paraggi. E’ un programma molto complesso, perché “ritorno” significa tornare a casa
per rimanere. E se facciamo tornare i rifugiati o gli sfollati troppo presto, quando
ancora non c’è la pace, quando non c’è un minimo di infrastrutture sul terreno, il
rischio grave è che questi tornino di nuovo a Mogadiscio o nei Paesi limitrofi.