2012-12-07 08:29:19

L'Onu esorta alla mobilitazione per fronteggiare la carestia in Somalia


Un miliardo di euro: è la cifra chiesta dall’Onu alla comunità internazionale per aiutare la Somalia a far fronte a eventuali siccità e carestie, come quella che nel 2011 ha provocato decine di migliaia di morti. Sono 3 milioni e 800 mila le persone che necessitano di aiuto in questo Paese, devastato da una crisi umanitaria tra le più gravi al mondo e sfiancato da anni di guerra civile. Il miglioramento della situazione alimentare e la nuova fase politica permettono ora di interrompere il ciclo di crisi dovute a siccità e conflitti, hanno dichiarato le Nazioni Unite. Francesca Sabatinelli ha intervistato Bruno Geddo, responsabile Acnur (Alto Commissariato Onu per i rifugiati) per la Somalia:RealAudioMP3

R. – La situazione è decisamente migliore. Quello noi diciamo oggi, e che sostiene questa richiesta da un miliardo di euro, è: “Cambiamo la nostra strategia in Somalia”. In Somalia, c’è un governo legittimo che ha bisogno di essere sostenuto e che finalmente ha una legittimità anche agli occhi del popolo somalo. Vediamo se anche le Nazioni Unite possono cambiare il modus operandi e acquisire maggiore sensibilità e anche maggiore legittimità agli occhi del popolo somalo. Noi diciamo quindi: invece di dare una risposta alle crisi quando è troppo tardi, cerchiamo di prevenirle. Questo vuol dire aiutare le popolazioni ad assorbire gli shock, che possono essere una catastrofe naturale – una carestia, soprattutto – ma anche una catastrofe prodotta dall’uomo, quindi altre guerre. Assorbire, quindi, questi shock e riprendersi da essi senza che il loro sistema di vita né le loro fonti di sostentamento vengano distrutte. Ecco perché, paradossalmente, pur migliorando la situazione in Somalia si chiedono più soldi: perché vogliamo cambiare il nostro modo di agire per non trovarci più in una condizione disastrosa come quella della carestia dell’anno scorso, perché la gente sarà in grado di assorbire meglio questi traumi, di riprendersi: avranno basi più solide.

D. – Due milioni e 100 mila persone: le Nazioni Unite quantificano in questo numero i somali che attualmente hanno assolutamente bisogno di sostegno...

R. – Sì, hanno bisogno di sostegno per potersi ritrovare in una situazione più sicura. Oggi non c’è più la carestia in Somalia, c’è però ancora emergenza e crisi umanitaria. E aggiungo: ci sono ancora un milione e 700 mila persone che sono uscite dalla situazione di crisi umanitaria, ma che non sono ancora completamente autosufficienti, hanno ancora bisogno di un minimo di supporto per evitare di ricadere in una condizione di crisi umanitaria. Sono tre milioni e 800 mila persone che ancora necessitano di una qualche forma di assistenza internazionale.

D. – La nuova situazione politica in Somalia e la cacciata da Mogadiscio degli Shabaab, in qualche modo, stanno facilitando il lavoro delle Nazioni Unite?

R. – Diciamo che, come al solito, il quadro in generale dei Paesi in via di sviluppo, in particolare in Somalia, è misto. Le città – Mogadiscio, certo, è la capitale – ma le città, i capoluoghi di provincia e di regione sono stati liberati, come dicono i somali, dalla presenza degli Shabaab. Per un osservatore esterno, quindi, “non ci sono più gli Shabaab: andate, assistete, aiutate”. In realtà, il livello di sicurezza in queste città, in questi capoluoghi di regione, non è tale da permettere automaticamente ai lavoratori umanitari di andare senza rischiare la vita. In realtà, infatti, sono città all’esterno delle quali gli Shabaab continuano ad essere attivi. Queste città sono collegate da una rete di strade molto danneggiate, naturalmente, intorno alle quali si trovano gli Shabaab – che ora non sono più riconoscibili perché non sono più un esercito convenzionale ma si sono raggruppati in una sorta di guerriglia asimmetrica o non convenzionale – e attaccano con delle imboscate i convogli umanitari che percorrono queste strade che collegano queste città. Quindi, in realtà la sicurezza non è completa, gli Shabaab mantengono delle cellule dormienti all’interno di queste città, che vengono attivate per compiere attacchi suicidi o attacchi esplosivi contro i loro obiettivi.

D. – Più di un milione di persone è sfollato all’interno dei confini somali, e più di un milione di somali si è rifugiato fuori dal Paese: che ne è di queste persone e come le assistete?

R. – Abbiamo incominciato nel gennaio di quest’anno un programma di ritorno degli sfollati, cioè le persone che si sono spostate all’interno del Paese, che hanno dovuto abbandonare le loro residenze a causa della guerra, delle violazioni dei diritti umani e della carestia. Riusciremo a far tornare 20 mila persone, soprattutto da Mogadiscio, ai loro villaggi di origine entro il primo trimestre del 2013. Abbiamo imparato moltissimo da questo programma di ritorno: l’idea è di applicarlo eventualmente - quando ci saranno le condizioni - anche al ritorno dei rifugiati dall’Etiopia e dal Kenya, ce ne sono un milione nei paraggi. E’ un programma molto complesso, perché “ritorno” significa tornare a casa per rimanere. E se facciamo tornare i rifugiati o gli sfollati troppo presto, quando ancora non c’è la pace, quando non c’è un minimo di infrastrutture sul terreno, il rischio grave è che questi tornino di nuovo a Mogadiscio o nei Paesi limitrofi.







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