Dure prese di posizione di Israele: ancora insediamenti e blocco delle tasse riscosse
per l’Anp
Mentre nelle ultime ore il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen,
festeggiava a Ramallah il voto dell’Onu sulla Palestina nuovo Stato osservatore non
membro, da Israele arrivavano dure prese di posizione: la conferma di nuove costruzioni
a Gerusalemme e in Cisgiordania e l’annuncio del blocco delle tasse riscosse per l'Anp,
cioè 460 milioni di shekel (92 milioni di euro) che l’Anp non avrà. Israele ignora
gli appelli dell’Ue e del segretario generale dell’Onu che ribadiscono l’illegalità
degli insediamenti israeliani. Delle scelte di Tel Aviv, Fausta Speranza ha
parlato con Alessandro Colombo, docente di Relazioni Internazionali all’Università
di Milano:
R. – E’ chiaro
che c’è un rapporto tra le due decisioni e quella israeliana è una sorta di rappresaglia
diplomatica, se così possiamo definirla. Si tratta di capire quali sono le motivazioni
di questa politica israeliana che si va radicalizzando, per la verità, da diversi
anni a questa parte. In questo caso è molto probabile che, oltre ad una partita a
scacchi internazionale, si stia giocando una "banalissima" partita a scacchi interna:
Israele è prossimo alle elezioni e probabilmente questa mossa, prima di essere una
mossa di politica estera, è una "banalissima" mossa elettorale.
D. – Invece,
sul piano internazionale, quali potrebbero essere i prossimi movimenti? Per esempio,
Obama a questo punto si trova in una posizione delicata, perché all’Onu c’è stata
una presa di posizione precisa; Obama, però, è sempre stato contrario alle colonie
e ha cercato di riprendere Israele. E’ così?
R. – Sì. La posizione degli Stati
Uniti è una posizione molto delicata: da un lato, i rapporti tra Israele e gli Stati
Uniti hanno toccato, negli ultimi mesi, uno dei loro punti più bassi. Dall’altro lato,
naturalmente, gli Stati Uniti restano un alleato di ferro di Israele ed Israele sa,
che in caso estremo, può comunque contare sul sostegno politico e diplomatico, oltre
che, ovviamente, militare degli Stati Uniti. Quello che è accaduto alla politica americana
degli Stati Uniti è sostanzialmente l’opposto di quello che si erano immaginati fino
a pochi anni fa: gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo in Medio Oriente. Hanno
perso il controllo nel mondo arabo, visto che le cosiddette “Primavere arabe” sono
state un processo totalmente autonomo e totalmente sfuggito al controllo americano,
e sembra che gli Stati Uniti non abbiano alcuna possibilità, in questo momento, di
controllare la politica israeliana. Quello di Israele – va detto – è l’ennesimo schiaffo
diplomatico, che conferma la marginalizzazione paradossale della principale potenza
da una delle principali aree del sistema internazionale.
D. – C’è da aspettarsi
– tristemente – un protrarsi di questo drammatico stallo nel negoziato israelo-palestinese?
R.
– Questo è uno dei problemi della politica di Barack Obama in Medio Oriente. Per sanare
gli errori dell’amministrazione Bush - che in Medio Oriente aveva fatto troppo e aveva
fatto male - Barack Obama ha adottato un atteggiamento molto, molto più prudente e,
per la verità, ha dato l’impressione di pensare che il conflitto israelo-palestinese
ed il negoziato potessero essere lasciati lì. Questo è un conflitto che non può essere
lasciato lì, perché produce continuamente nuovi conflitti e di conseguenza produce
problemi di legittimità per la politica estera americana nella regione. E questo è
l’altro dilemma americano: da un lato gli Stati Uniti avrebbero, in questo momento,
bisogno estremo di tornare al negoziato, o meglio di riportare al negoziato le due
parti; dall’altro lato, gli Stati Uniti non sono mai stati così deboli in Medio Oriente,
quanto lo sono oggi. Quindi, per gli Stati Uniti questa situazione è la peggiore per
fare quello che avrebbero dovuto fare anni fa, cioè costringere le due parti al negoziato
e soprattutto costringere la parte più forte a fare concessioni alla più debole.