Chiese europee e migranti: una politica di "comunione" per le migrazioni in Europa
La parola d’ordine è qualcosa di più dell’integrazione perché il lavoro con e per
i migranti in Europa passa soprattutto attraverso un cammino di “comunione” che richiede
un “cambiamento” di atteggiamento e di prospettiva “da parte dei migranti che entrano
in un Paese e da parte di chi accoglie”. È il card. Josip Bozanić, arcivescovo di
Zagabria, a delineare le conclusioni di una due giorni di lavoro che, sul tema “Una
pastorale di comunione per una rinnovata evangelizzazione”, ha riunito a Roma circa
40 delegati rappresentanti vescovi e direttori nazionali per la pastorale dei migranti
delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee). È proprio lo stile della “comunione”
- ha detto l’arcivescovo di Zagabria - il contributo “specifico” che la Chiesa può
dare nel difficile processo di accoglienza e integrazione dei migranti nei diversi
Paesi europei, soprattutto in un periodo di recessione economica. “Un processo importante”
al quale “la Chiesa deve lavorare” come “devono lavorare anche altre organizzazioni
politiche e sociali”. È stato il Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa -
riporta l'agenzia Sir - a promuovere l’incontro di Roma. Una due giorni durante la
quale i partecipanti si sono confrontati sull’impegno che la Chiesa in Europa svolge
a fianco non solo degli immigrati che arrivano ma anche degli emigrati che partono.
Ne è uscita - come ha detto mons. Pierre Burcher, vescovo di Reykjavik (Islanda) -
“l’icona di una Chiesa che si fa prossima con gli ultimi, i più poveri, spesso i migranti”.
Di particolare attenzione sono le problematiche di Paesi europei colpiti dalla recessione
economica, come il Portogallo, dove si contano 5 milioni di partenze “registrate”
all’estero, a cui si devono aggiungere all’incirca 2 milioni di persone che hanno
lasciato non ufficialmente il Paese. “E se negli anni Novanta - ha detto padre Francisco
Sales Diniz, della Commissione episcopale per le migrazioni - il Portogallo ha accolto
migranti provenienti soprattutto dai Paesi dell’area dell’ex Unione Sovietica, dal
2005 con la crisi il Portogallo è tornato a diventare Paese di emigrazione”. È stato
padre Giovanni Peragine, presidente dell’Ucesm (la Confederazione dei superiori maggiori
d’Europa) e missionario in Albania, a sottolineare “il problema di coloro che rimangano
in patria, delle famiglie abbandonate dalle persone che emigrano alla ricerca di un
lavoro e di migliori condizioni di vita. Occorre, allora, pensare anche a un apposito
servizio per chi rimane a casa e si trova in una situazione difficile e precaria”.
La Spagna, ha detto padre José Luis Pinilla, direttore del segretariato della Commissione
episcopale per le migrazioni, è un “Paese che sta attraversando una difficile fase
di crisi economica, conta 5,5 milioni di stranieri al suo interno, pari al 14% della
popolazione. Il tasso di disoccupazione degli immigrati ha raggiunto il 35%. Non ci
sono fenomeni di xenofobia ma bisogna stare attenti: la recessione e la crisi stanno
distruggendo le basi principali dell’integrazione espandendo i fenomeni di emarginazione
con problemi anche d’illegalità”. Il movimento migratorio in Europa risente anche
dei conflitti in atto nei Paesi della cosiddetta “primavera araba”. È stato il rappresentante
di Malta, mons. Alfred Vella, a sottolinearlo. Malta con oltre 15.000 immigrati negli
ultimi anni sopporta questa incidenza con difficoltà perché, pur trattandosi di un
numero esiguo rispetto ad altre situazioni in Europa, questo dato è forte per “una
piccola isola come la nostra”. “E gli arrivi che fino a qualche anno fa erano per
Malta un fenomeno transitorio - ha detto - oggi sono diventati un fenomeno costante
anche di fronte alla primavera araba, alla caduta di Gheddafi in Libia, alla guerra
in Siria”. (R.P.)