Pena capitale: ministri della giustizia dei Paesi abolizionisti in un convegno di
Sant'Egidio
Ministri della giustizia e rappresentanti governativi di diversi Paesi abolizionisti,
testimoni diretti e sopravvissuti ai bracci della morte si sono riuniti ieri a Roma
per ribadire il no alla pena capitale in un convegno organizzato dalla Comunità di
Sant’Egidio, dal titolo “Per un mondo senza pena di morte”. Il servizio di FrancescaSabatinelli:
Attualmente,
sono circa 150 i Paesi che hanno abolito la pena capitale: tra gli ultimi, la Mongolia
e, negli Usa, gli Stati dell’Illinois e Connecticut. Soltanto pochi giorni fa, il
19 novembre, all’Onu è stata approvata con 110 voti favorevoli una risoluzione che
chiede una moratoria della pena capitale. Si procede quindi in un a direzione che
potrebbe portare alla fine di uno dei peggiori abomini di Stato. MarcoImpagliazzo,
presidente di Sant’Egidio:
R. – L’abolizione della pena di morte va avanti,
nel mondo. Quest’anno, per fortuna, sono state eseguite quasi mille condanne a morte
in meno. Sebbene il numero delle persone uccise – 5.000 secondo i dati che abbiamo
– sia terribile, tremendo, questo ci fa riflettere sul fatto che la lotta sarà lunga,
avrà bisogno di pazienza e di fedeltà. Ma la Comunità di Sant’Egidio è mobilitata
con tutti i suoi membri nei 73 Paesi del mondo dove si trova, per vincere questa battaglia
a tutti i livelli, a livello di società civile e a livello politico, degli Stati.
D.
– La Comunità di Sant’Egidio ha sottolineato la ripresa in India delle esecuzioni:
il 21 novembre scorso, è stato messo a morte uno degli attentatori di Mumbai. E si
è trattato della prima esecuzione in India dal 2004. Come interpretare questo segnale?
R.
– E’ da interpretare nel senso che i rigurgiti di applicazione di questa pena, che
ormai è anacronistica oltre ad essere terribile, ci sono. E quindi occorre tenere
alta l’attenzione del mondo, degli Stati, anche attraverso le Nazioni Unite. Per questo
c’è il Convegno, qui a Roma. Non bisogna mai abbassare la guardia, c’è troppa violenza
in questo mondo e ci sono troppi sistemi di risposta che vengono concepiti, da parte
dello Stato, come una vendetta. Noi dobbiamo ribadire il nostro "sì" alla vita, il
nostro "viva la vita", e non "viva la morte", come invece la pena di morte dice nel
mondo. Dunque, Sant’Egidio ha scoperto – lavorando in questi anni – come la pena di
morte sia anche una condanna razzista, perché negli Stati Uniti vengono messe a morte
sostanzialmente persone di colore, persone povere. E’ una condanna diseguale, che
non tiene conto dell’uguaglianza degli uomini, perché vengono uccisi i poveri. Insomma,
ci sono tanti e tanti veleni della giustizia in questa pena di morte, che realmente
va abolita.
D. – Impagliazzo, si riuscirà ad arrivare ad una moratoria universale?
R.
– Noi siamo cristiani, abbiamo fede e lo crediamo. Abbiamo grande fiducia che questa
mobilitazione continui, perché ormai ha coinvolto milioni e milioni di persone. E
io penso che quando si muovono i cittadini, le associazioni, le comunità, ci sono
dei movimenti profondi nella storia che porteranno belle sorprese.
TamaraChikunova è stata una delle ospiti illustri del convegno di oggi. Il suo lavoro
e quello dell’Associazione da lei fondata, "Madri contro la pena di morte e la tortura",
ha portato all’abolizione della pena capitale nel suo Paese, l’Uzbekistan. Tamara,
cristiana ortodossa, ha visto condannare a morte il suo unico figlio per un delitto
non commesso. Era il 2000 e Dimitrij aveva 28 anni:
R. – (parole in russo)... E’
stato molto difficile decidere di lottare contro la pena di morte, di restare in questa
vita e lottare. Sarebbe stato molto più facile, forse, andarsene. Non è tanto perché
il lavoro è tanto difficile, ma semplicemente perché nel 2000, il 10 luglio, è stato
fucilato in una prigione di Tashkent, in tutto segreto, il mio unico figlio. Mio figlio
è stato condannato a morte ingiustamente, accusato di un omicidio che non aveva commesso.
Lui non voleva firmare la confessione e a quel punto hanno arrestato me. L’avevano
torturato, l’avevano picchiato, avevano usato una maschera antigas togliendogli la
possibilità di respirare. Quando ha saputo che avevano arrestato sua madre, che avevano
minacciato di farle del male, ha firmato la propria condanna a morte in cambio della
mia vita. Anche se abbiamo nutrito qualche speranza in una sentenza giusta, così non
è stato. Chikunov Dimitrij, cittadino russo, cristiano, nato a Berlino, 28 anni: questa
persona non aveva alcun valore per la società, non aveva nessuna possibilità di essere
riabilitato nei luoghi di detenzione. Pertanto, veniva condannato a morte.
D.
– Tamara, ma con questo enorme dolore nel cuore come ha fatto ad andare avanti e addirittura
a creare un’associazione, a impegnarsi per salvare le vite degli altri ragazzi, degli
altri detenuti? Dove ha preso la forza?
R. – (parole in russo)... Per i
primi due anni, anche se avevo già creato la mia organizzazione e incominciato a portare
alla luce alcuni casi di persone detenute in attesa di condanna a morte, ho vissuto
anche una forte lotta interiore, perché il desiderio di vendicarmi personalmente su
chi mi aveva tolto l’unico figlio era molto forte. Solo dopo, ho realizzato che forse
avrebbe potuto essere più importante aiutare le persone che erano ancora detenute
in quelle celle dei condannati a morte.
D. – Esattamente, voi come Associazione,
cosa facevate, che lavoro portavate avanti?
R. – (parole in russo)... Ci
sono state altre situazioni orribili. Io sono giurista, ho lavorato anche sui casi
delle persone condannate a morte. A volte, non abbiamo fatto in tempo a fare annullare
la sentenza che la condanna veniva eseguita. E ho dovuto informare i genitori, le
madri, i padri, di queste persone, ho dovuto dirglielo io, perché il nostro Stato
non ritiene opportuno svelare il segreto, perché l’esecuzione avviene in segreto.
Quindi, ho dovuto io svolgere la funzione dell’"angelo della morte", guardando negli
occhi le madri e rivivere ogni volta la morte di mio figlio. Non augurerei nemmeno
al mio peggior nemico una missione di questo genere. Quando poi rimanevo da sola,
piangevo, urlavo, dicevo: “Signore, per quale motivo devo portare questa croce? Non
posso vivere ancora, non posso rimanere in vita!”. Poi, arrivava la mattina, mi alzavo
e pensavo che nelle celle dei condannati a morte c’erano tanti altri giovani, ed era
come se fossero tutti figli miei, che aspettavano qualcosa da me, da tutti noi. E
se noi non fossimo riusciti a fare niente per loro, sarebbero morti anche loro. E’
una strada molto difficile. Ovviamente, non avrei potuto percorrerla completamente
da sola: la Comunità di Sant’Egidio mi ha aiutata tantissimo, da tutti i punti di
vista. Mi ha permesso di continuare a vivere in questo Paese per me terribile, che
è l’Uzbekistan, e di svolgere la mia funzione sociale, di lavorare, proteggendomi
e garantendomi anche l’incolumità personale, senza la quale avrebbero anche potuto
farmi fuori. E’ quindi grazie a loro che sono riuscita ad andare avanti, comunque.
MaratRakhmanov è stato arrestato alla fine degli anni ’90, mentre era in Uzbekistan
in vacanza dalla sorella. Anche lui, come Dimitrij, è stato condannato a morte per
un delitto non commesso. In prigione ci è rimasto nove anni: per 13 mesi è stato rinchiuso
nel braccio della morte. E’ stato rilasciato grazie al lavoro di Tamara e dell’Associazione:
R.
– (parole in russo)... Per costringermi a rilasciare delle dichiarazioni e ad ammettere
la mia colpa, assieme a me hanno imprigionato mia sorella con il suo bambino di un
anno e mezzo. Io ho dovuto quindi firmare documenti che mi accusavano in cambio della
liberazione di mia sorella e di suo figlio. Nella Repubblica dell’Uzbekistan questo
è considerato un metodo normale, se così si può definirlo, utilizzando questo sistema
esercitano pressioni sull’accusato.
D. – E’ stato torturato nel periodo di
detenzione?
R. – (parole in russo)... Nel corso dei 13 mesi di detenzione,
mi hanno picchiato regolarmente: proprio botte, ma forti! Le mie mani sono state tagliate
con vari strumenti; ho problemi alla schiena dopo che mi hanno picchiato tanto, e
devo dire che il mio fisico mi ricorda sempre, ogni giorno, tutto quello che ho passato
tanti anni fa, nel corso di questi 13 mesi. Uno volta uscito, poi, per due settimane
sono stato, per così dire, in prigione a casa di Tamara, perché lei mi difendeva e
mi nascondeva in modo che non mi accadesse nulla. La difesa di Tamara è stata molto
buona, perché i poliziotti hanno anche tentato di entrare in casa sua pur di trovarmi.
D.
– Nel 2008 è uscito. In questi quattro anni, anche lei ha iniziato a lavorare nell’Associazione
per lottare contro la pena di morte?
R. – (parole in russo)... Dopo tutto
quello che ho passato psicologicamente, ma anche con i problemi fisici che sono rimasti
dopo le percosse, avevo bisogno di un po’ di tempo per superare questo periodo. Anche
adesso, parlando con lei, ricordando tutto quello che mi è successo, magari lei non
se si accorge dalla mia espressione, ma dentro di me soffro, perché è dolorosissimo
perfino ricordare quello che è successo. Per lavorare in strutture di questo genere,
servono persone molto forti. Io, al momento attuale, potrei solo essere testimone
di quello che è successo. Ancora non sono pronto a lottare, a lavorare. Ho bisogno
di un po’ di tempo, non solo per superare i problemi di carattere fisico e psicologico;
ho bisogno di superare quel momento in cui vorrei scagliarmi di persona contro le
persone che mi hanno accusato. Devo riuscire a raggiungere quello stato d’animo per
cui il mio impegno sarà lottare contro il sistema, che accusa e ammazza le persone.