Pedofilia: scoperto il più grande archivio web. Don Di Noto: la grande stampa lo ignora
Scandalo pedofilia in Italia: scoperto su Internet il più grande archivio pedopornografico
mai rinvenuto dalla Polizia postale, che ha condotto le indagini per 10 mesi, a partire
dalla segnalazione di una ragazza salernitana che, scaricando dei file musicali di
Edith Piaf, si è ritrovata il computer inondato da materiale raccapricciante. Dieci
le persone indagate in varie regioni d’Italia. Il servizio di Roberta Gisotti:
Cinque milioni
di file, tra immagini e video, organizzati per categorie: "soft" con bambini nudi,
"hard" con minori violentati, "hurtcore" con violenze sessuali e torture e "death"
con piccole vittime abusate e apparentemente uccise. Immagini aberranti che hanno
scioccato anche gli investigatori, rinvenute nel cosiddetto deep web. Che cos’è,
lo chiediamo a don Fortunato Di Noto, fondatore dell’associazione Meter, in
primo piano nella lotta alla pedofilia on line:
R. - E’ il mondo sommerso
del web. Uno spazio vastissimo che vive sotto il web conosciuto, dove nell’anonimato
si compiono i traffici più illeciti del mondo: traffico di esseri umani, di mafia,
di camorra, di terrorismo, traffico di droga. Da alcuni anni, sia le Forze dell’ordine
internazionali, oltre a quelle italiane, sia anche le associazioni che nello specifico,
come Meter, si occupano di pedopornografia e di pedocriminalità, cercano di monitorare
questo sommerso per far sì che questi criminali vengano fermati.
D. – Ma come
si entra in questo deep web? Si scaricano dei programmi, costosi o meno?
R.
– Non sono affatto programmi costosi, si scaricano facilmente e gli addetti ai lavori
del web conoscono benissimo i programmi software per navigare all’interno di
questo mondo. Per fortuna, anche le Forze dell’ordine conoscono quei software
per navigare in quello spazio. Comunque, già il web – quello conosciuto – è difficile
da controllare nella sua totalità; immaginate il deep web, che è un mondo veramente
sommerso.
D. – Questa notizia di quest’ultimo scandalo-pedofilia oggi trova
pochissimo o nessuno spazio nei giornali, neanche sull'edizione cartacea di “Repubblica”
e “Corriere della Sera”. Distrazione, resistenze culturali o altro?
R. – A
me impressiona quando quotidiani così rinomati e importanti magari pubblicano quattro-cinque
pagine di gossip, e non informano la gente su questi fenomeni aberranti, così
gravi. Io non credo che oggi la società non sappia contenere queste notizie, non sappia
gestirle emotivamente, ma di certo non parlarne favorisce ancora di più la diffusione
di una mentalità che quasi tende sempre più a normalizzare il fenomeno. Qui, stiamo
parlando di un’operazione importante che ha permesso il sequestro di cinque milioni
di file, con cartelle che contengono immagini di neonati violentati e si suppone forse
anche uccisi. Allora, se tutto questo non ci indigna e non crea una motivazione per
contrastare anche culturalmente il fenomeno, io credo che ci sia da interrogarsi.
Noi dobbiamo dire che la pedofilia è un crimine: non possiamo pensare che sia un fenomeno
marginale. E’ veramente un fenomeno per cui i criminali si nutrono della carne e dell’innocenza
dei bambini. Non riesco a capire perché di conseguenza moltissimi quotidiani poi non
ne parlano: questa veramente è un’omissione di soccorso, un’omissione di informazione.
D.
– Perché i nomi, non dico dei sospettati di pedofilia, ma anche di chi viene arrestato
in flagranza di reato, perfino dei condannati per questo odiosissimo reato non vengono
in genere resi noti, e solo in qualche caso pubblicate le iniziali?
R. – Il
concetto è sempre, al solito, la garanzia della privacy. Ma qui stiamo parlando di
tipi di reati che qualcuno – come noi – definisce crimini contro l’umanità! Cioè,
le persone che compiono reati contro i bambini non possono essere tutelate nella loro
privacy! Capisco la tutela per evitare il far-west, per evitare azioni che
possano arrecare ulteriore danno a chi è stato abusatore, predatore di bambini; però
è anche vero che la conoscenza del nome permetterebbe due cose: uno, sarebbe un elemento
deterrente perché questi soggetti potrebbero così essere individuati e – perché no?
– la società potrebbe proteggersi da ulteriori attacchi. Dall’altra parte, forse anche
per il soggetto l’essere conosciuto potrebbe diventare un deterrente per fare meno
danni. Certamente, anche qui la discussione è apertissima: se arriva la condanna definitiva,
in terzo grado, se la condanna è definita penso che non dovrebbe esserci alcun problema
nell’indicare nome e cognome.
D. – Anche perché non c’è tutela della privacy
per i condannati di altri reati …
R. – Precisamente. Ma il problema è anche
un altro: spesso si ha una condanna più pesante per chi ruba galline di quanto per
chi commette questo tipo di reato. Per fortuna, con la ratifica della Convenzione
di Lanzarote le cose sono un po’ cambiate per quanto riguarda i livelli di prescrizione
del reato: si può arrivare – dipende dalla gravità del reato commesso nei confronti
dei minori – anche a 28 anni di prescrizione. Forse, bisogna fare di più, forse bisogna
applicare di più applicare di più, forse bisogna che la giustizia sia più celere di
quanto non lo sia oggi. Normalmente, in un processo per abuso sessuale su bambini,
per avere un primo grado, possono passare anche cinque-sei anni. Figuratevi quanto
può passare per avere una condanna definitiva in Cassazione.