Giornata mondiale Tv. Mons. Viganò: no a linguaggi violenti, informare con equilibrio
Ogni giorno accompagna la nostra vita in ogni angolo del pianeta e tutt’ora rappresenta
il principale mezzo di comunicazione di massa. Nella Giornata mondiale della televisione
che ricorreva ieri, l’Onu richiama la responsabilità di questo media nel diffondere
contenuti ispirati alla pace e all’integrazione sociale. Roberta Gisotti ha
intervistato mons. Dario Edoardo Viganò, docente di Comunicazione alla Pontificia
Università Lateranense:
Di fronte
alla tv, ancora oggi vi è un numero maggiore di spettatori rispetto a ogni altro media.
A livello mondiale, il consumo televisivo supera le quattro ore al giorno, rispetto
ai circa 30 minuti di Internet e ai 15 minuti dei social network. Inoltre, i contenuti
televisivi sono maggioritari nella Rete, dove navigano soprattutto i giovani. Insomma,
la Tv messa alla porta dal web è rientrata dagli schermi di pc, tablet e smarthphone.
Mons. Viganò, la Tv può giocare un ruolo formidabile nel promuovere valori positivi
ma anche negativi: a chi spetta vigilare?
R. - Prima della vigilanza, io credo
spetti alla coscienza dei professionisti. Troppo spesso, ad esempio, la televisione
- dai talk show ai dibattiti, ma anche negli stessi telegiornali - fa un uso sconsiderato
di una grammatica troppo violenta: qualunque cosa diventa una catastrofe, qualunque
elemento di dibattito diventa uno scontro. Io credo che, anzitutto da parte dei professionisti,
ci voglia la consapevolezza che le parole hanno un peso e questo è importante. Ci
vuole una professionalità decisamente superiore di quella che oggi è continuamente
esposta nel piccolo schermo, che tenga conto che il linguaggio è la forma propria
del racconto della propria identità e della propria società. Secondo aspetto, la vigilanza:
una vigilanza che sia capace da una parte di non eludere posizioni differenti da quelle
maggioritarie e che dall'altra dia libera cittadinanza a visioni anche diverse, nel
rispetto però delle regole democratiche e nel rispetto delle singole persone.
D.
- Sappiamo che la tv è potente veicolo di omologazione di stili di vita e tendenze
al consumo attraverso format, reality, pubblicità dove lo spettatore piuttosto che
avere un’identità di cittadino, viene considerato un consumatore quando non una merce
da vendere…
R. - Purtroppo, che il cittadino più che titolare di diritti sociali
diventi un consumatore si è visto anche soprattutto in queste ultime settimane nei
dibattiti politici e questa è una deformazione. Ciascuno di noi è prima di tutto una
persona con una dignità, con una necessità di legami sociali e con dei diritti, perché
questi legami sociali vengano mantenuti coesi e a questi venga data la possibilità
di essere espressi.
D. - Si chiede più responsabilità agli operatori televisivi
a tutti i livelli, ma anche forse responsabilità del pubblico a rivendicare oppure
ad avere coscienza dei propri diritti comunicativi…
R. – Sì, non è sufficiente
che qualcuno eserciti il diritto di informazione, ma è necessario che il pubblico
reclami il diritto di un’informazione "buona", un’informazione adeguata, proporzionale
con un linguaggio capace di esprimere la gradualità delle situazioni. Ad esempio,
un dibattito politico non è uno "scontro": utilizziamo troppo linguaggio tipico della
guerra e questo non va bene.