Obama in Myanmar: Aung San Suu Kyi "icona di democrazia"
Sono qui per porgere una mano di amicizia. Così si è espresso ieri il presidente statunitense,
Barack Obama, nel discorso all’Università di Rangoon, in Myanmar. Il capo della Casa
Bianca ha poi definito "icona di democrazia" la leader dell’opposizione e Premio Nobel
per la pace, Aung San Suu Kyi, quindi ha auspicato che continui nel Paese la via delle
riforme. Sul significato di questo viaggio in Myanmar, il primo di un presidente americano,
Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Francesco Montessoro, docente
di Storia dell’Asia presso l’Università Statale di Milano:
R. – Il viaggio
in Myanmar è veramente importante, perché il presidente degli Stati Uniti arriva in
un Paese che fino a ieri è stato fuori dalla comunità internazionale per la natura
del regime militare e per le caratteristiche della sua storia negli ultimi 20 anni.
Oggi, noi abbiamo un quadro politico completamente mutato per la possibilità di elezioni
suppletive, per l’ingresso di Aung San Suu Kyi nel parlamento birmano, per la liberazione
di centinaia di oppositori in prigione da anni...
D. – Proprio Obama nel suo
discorso di oggi ha parlato di un Paese, sì isolato, ma che può comunque dimostrare
che riforme e sviluppo possono andare avanti di pari passo…
R. – Si tratta
di un Paese dotato di grandi prospettive. Alle radici dell’apertura internazionale
di questi mesi, vi è precisamente l’integrazione in un’area che è in rapido sviluppo.
Non bisogna dimenticare che il Myanmar, ormai da parecchi anni, è membro dell’Asean,
dell’Associazione dei Paesi dell’Asia sudorientale, vale a dire di un’area che è comunque
estremamente dinamica.
D. – Dunque, molto è cambiato da quando le sanzioni
internazionali sul Myanmar si sono alleggerite?
R. – Certo. Il Myanmar è dotato
di risorse non trascurabili, è dotato di una posizione strategica di tutto rilievo
in un contesto molto propulsivo.
D. - Nei suoi discorsi, Aung San Suu Kyi ha
più volte ribadito: la strada verso la democrazia è ancora lunga e il processo non
è ancora irreversibile…
R. – Diciamo che non c’è la certezza di un mutamento
di classe dirigente, in termini generali. Bisognerà attendere il 2015, quando si effettueranno
nuove elezioni. Nel frattempo, c’è un processo aperto che è estremamente positivo
e la presenza di Obama, oggi, ha un valore straordinario non solo dal punto di vista
americano. In questo modo, infatti, il Myanmar diventa pedina di una strategia americana
di avvicinamento all’Asia, anche in relazione al contenimento della Cina. E soprattutto,
è la garanzia internazionale di un processo che è in corso e che non pare avere limitazioni
vere al proprio interno.
D. - Questo anche se nel Paese la situazione rimane
difficile: nell’ovest, ci sono gli scontri tra buddhisti e musulmani, parliamo di
oltre 180 persone morte e di oltre 100 mila che sono state costrette a fuggire dalle
loro case…
R. - Quando si parla di vite umane non c’è mai nulla di marginale.
Tuttavia, in termini politici la questione delle minoranze musulmane non ha un carattere
strategico. Sono i rapporti con le minoranze delle montagne, con Kachin, Shan, Karenni…
D.
- Gli autonomisti?
R. – Esatto, e questi hanno un valore strategico. Il destino
della Birmania si gioca sugli equilibri tra i gruppi etnici birmani e sulla forte
presenza di gruppi etnici minoritari che sono dotati anche di propri eserciti.
D.
– Il cambiamento che sta avvenendo sul fronte politico-democratico potrebbe aiutare
l’unità del Paese anche nei confronti di chi vanta autonomie?
R. – E’ un elemento
centrale. Se il Myanmar accompagna la sua marcia verso la democrazia a un rapporto
nuovo con le minoranze del nord, ci sono buone speranze per un mutamento sostanziale.