Ancora raid israeliani su Gaza, alta tensione tra Tel Aviv e Damasco sulle alture
del Golan
L'aviazione israeliana ha lanciato nella notte tre raid contro obiettivi situati nella
Striscia di Gaza senza provocare feriti. I raid si inquadrano nella nuova ondata di
violenze alla frontiera tra la Striscia di Gaza e Israele, la seconda in meno di un
mese. E le autorità israeliane parlano con sempre più insistenza della possibilità
di una operazione militare contro Gaza. Ma c’è tensione anche tra Israele e Siria
sulle alture del Golan: Tel Aviv ha risposto lunedì a un colpo di mortaio siriano.
Per capire la strategia di Israele nel quadro attuale di escalation in tutta la regione,
Fausta Speranza ha intervistato il prof. Claudio Lo Jacono, direttore
della rivista "Oriente moderno":
R. – Non sono
soltanto la Siria e la Palestina, ma - ricordiamoci – è incombente sempre la questione
iraniana. Le motivazioni della guerra civile siriana sono estranee alla questione
palestinese, che è la questione dirompente da oltre mezzo secolo dell’area del vicino
Oriente, che non ha mai trovato un equilibrio dalla nascita di Israele in poi. Le
questioni della guerra civile siriana sono di un’opposizione contro il regime dinastico
familiare. Naturalmente, però, in un quadro sinistrato come quello della Siria e con
un quadro anche abbastanza pericolante come quello dell’Egitto, Israele cerca di approfittare,
per rafforzare la sua sicurezza, che è l’argomento principale che la preoccupa e la
occupa. Israele approfitta di un quadro di assoluta difficoltà del mondo arabo: panarabismo
morto e sepolto; la Siria in preda al dramma della guerra civile; l’Egitto con un
nuovo presidente democraticamente eletto, non moderato per alcuni versi anche se intenzionato
a mantenere una politica di non chiusura verso Israele e Iraq, che ha subito decenni
di dittature, di guerre, di terrorismo interno; il Libano scosso anch’esso da problemi
che non sono soltanto suoi interni, ma per lo più esterni. In questo quadro, Israele
ha tutto da guadagnare nell’imporre la sua visione della sua sicurezza.
D.
– A fine mese, il 29 novembre, Abu Mazen sarà di nuovo alle Nazioni Unite per chiedere
il riconoscimento di Stato non membro, un passo avanti rispetto alla definizione attuale
di entità osservatrice. Ma ha qualche speranza, secondo lei?
R. – Assolutamente
non credo ve ne siano... Credo che Abu Mazen cerchi di uscire da una posizione d’immobilismo
della quale ha anche responsabilità, in parte, l’Autorità palestinese ma assai più
Israele. In questa situazione di totale stallo e addirittura arretramento di fronte
a quelle che erano state le promesse di Camp David e degli accordi di Oslo, c’è il
tentativo puramente d’immagine di chiedere una collocazione internazionale dell’Autorità
palestinese, ma è praticamente sicuro che ci sarà il veto statunitense, che si muove
sempre in favore di Israele in queste circostanze, finché non si arriverà - non si
sa mai come o quando – alla realizzazione dei due popoli su un territorio.
D.
– La riconferma di Obama, però, in qualche modo non era quello che Israele sperava,
perché c’è tensione sul tema degli insediamenti tra Obama e Israele...
R. –
Sì, certamente Israele sarebbe stato molto più contento della vittoria del suo antagonista,
ma Obama si è affrettato, anche negli anni precedenti al suo primo mandato, a fare
ampie dichiarazioni di rassicurazione nei confronti di Israele. Sappiamo perfettamente
che l’elettorato ebraico negli Stati Uniti è molto forte e una linea anti Israele
non sarebbe assolutamente fruttuosa per i candidati a cariche politiche così importanti.