Siria. Violenza senza tregua. Per l'inviato di Onu e Lega Araba Brahimi "è guerra
civile".
La crisi in Siria "sta peggiorando" e ormai si puo' parlare solo di "guerra civile":
lo dice da Mosca l’inviato speciale di Onu e Lega Araba, Lakhdar Brahimi rammaricato
per il fallimento della tregua proposta alle parti. La Russia da parte sua chiede
la fine delle violenze e l’avvio di un dialogo politico. Ma sul terreno la violenza
divampa. Paolo Ondarza: In Siria è guerra
senza tregua. 68 in totale i morti di oggi secondo il conteggio dei comitati locali
di coordinamento dell’opposizione. Bombe sono cadute su Aleppo uccidendo 15 persone,
ma anche su diversi sobborghi di Damasco, teatro di scontri tra forze governative
e ribelli che controllano l'area. Anche 8 bambini tra le vittime di un un attacco
ad un autobus da parte delle truppe governative ad Hajar al Aswad. Il sobborgo, a
sud della capitale, è stato colpito nel pomeriggio anche da un attentato dinamitardo
condotto - riferisce l’agenzia governativa Sana - da "terroristi". Violenza anche
in mattinata: un autobomba a Jaramana, quartiere meridionale della capitale ha provocato,
secondo le autorità, sei morti e 50 feriti. Da parte sua il segretario generale delle
Nazioni Unite, Ban Ki-moon, esprime profonda delusione per il fallimento del cessate
il fuoco richiesto dall’inviato di Onu e Lega Araba, Lakhdar Brahimi. Quest’ultimo
in visita a Mosca parla di “guerra civile” esortando la comunità internazionale a
trovare una via d’uscita alla crisi. Domani Brahimi si recherà in Cina, dove il suo
operato ha già raccolto l’apprezzamento del governo.
Cresce intanto l’emergenza
umanitaria per i profughi che, in fuga dalle violenze, si stanno ammassando lungo
i confini con i Paesi limitrofi. Salvatore Sabatino ha intervistato Laura
Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, appena rientrata
dalla Giordania. Ascoltiamo qual è la situazione che ha trovato:
R. – E’ una
situazione sicuramente difficile. La Giordania è un piccolo Paese di meno di sei milioni
di abitanti, che però ha adottato la politica della porta aperta. Secondo il governo
giordano, sarebbero almeno 200 mila i siriani entrati nei confini del Paese, anche
se di queste persone, la metà – circa 105 mila - si sono registrate con l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Sono persone che abitano in un campo che ha una
capienza di 40 mila persone, il campo di Zaatari, e al momento ce ne sono circa 20
mila. Altri invece – il 75% – si trovano nelle città più grandi, dove affittano appartamenti
oppure sono ospitati presso amici e parenti.
D. – La Giordania è di per sé
un Paese – come dicevi tu – piccolo, molto povero. Non mancano, però, nonostante tutto,
testimonianze di solidarietà...
R. – Direi che non solo non mancano testimonianze
di solidarietà, ma c’è veramente una tendenza a voler presentare questa cosa come
una situazione di dovere da parte delle istituzioni, così come da parte delle persone.
Quindi, la politica della porta aperta, della solidarietà, è quasi una parola d’ordine
per le istituzioni giordane. Ecco, questo allora ci fa riflettere, specialmente perché
abbiamo visto che non è sempre così, anche in Europa, dove ci sono molti più mezzi.
Lo scorso anno, ricordo che in Italia sono arrivate 28 mila persone dalla Libia. Ebbene,
in Italia, lo scorso anno, le aurorità governative parlarono di "tsunami umano" e
avvertirono l’opinione pubblica che saremmo stati travolti da questa ondata di gente.
Questo, chiaramente, creò molta paura, molto timore. Allora, si capisce, invece, che
quando c’è un’emergenza, ciò che è più importante è riuscire a gestirla con pacatezza,
con senso pratico, e suscitando i sentimenti migliori dell’opinione pubblica. Io credo,
dunque, che in questo caso dovremmo guardare a questi Paesi che sono sicuramente più
poveri e imparare anche da loro.
D. – Ha sempre ribadito che i rifugiati siriani
hanno voglia di parlare e di far sapere al mondo quello che sta succedendo nel loro
Paese. Ma c’è anche paura per quello che potrebbe avvenire...
R. – Sì, noi
abbiamo visto tante persone nel campo di Zaatari che volevano parlare, dire la loro,
raccontare l’orrore che avevano vissuto nel loro Paese, ma avevano paura di farlo.
Le donne si coprivano il volto, perché non volevano rinunciare a denunciare, ma avendo
i parenti ancora lì, non volevano nemmeno metterli in pericolo, a rischio. Quello
che hanno raccontato sono storie terribili: storie di violenze, di abusi, di stupri.
Veramente una galleria degli orrori.
D. – Di cosa hanno più bisogno le persone
che arrivano in Giordania e quali sono le maggiori difficoltà che state riscontrando?
R.
– Le persone che arrivano dalla Siria spesso sono state già sfollate all’interno del
Paese due o tre volte. Quindi, arrivano non avendo più niente con loro: non hanno
risorse, non hanno vestiti, non hanno niente, perché sono scappati in fretta e furia.
Lì nel deserto, nel campo di Zaatari, sono stati fatti tanti interventi - è stata
portata la luce, l’acqua, le strade - ma è sempre deserto e per migliorare le condizioni
di vita di queste persone c’è bisogno di più stanziamenti, di più denari, di più disponibilità
da parte della comunità internazionale, ma anche da parte dei cittadini, perché con
l’inverno che arriva, se non si riesce a dare un’alternativa alla tenda, per queste
persone sarà durissima. Bisogna allora fare in modo che ci siano fondi, soldi necessari
per fornire i container, per fornire le coperte, le stufe. Io spero che gli italiani
continuino a essere generosi, come sono sempre stati, anche con cifre modeste. Vorrei
dare un numero verde, dove si possano acquisire più informazioni su questo. Il numero
è: 800 298 000.