Birmania: scontri tra buddisti e mulsulmani Rohingya. Oltre 100 i morti
In Birmania, proseguono gli scontri tra buddisti e musulmani di etnia Rohingya. Sono
scoppiati domenica nello stato di Rakhine, ad ovest, dove la componente di origine
araba-bengalese è maggioritaria rispetto alla popolazione locale. Il bilancio è di
112 morti, migliaia di sfollati e centinaia di abitazioni date alle fiamme. Le autorità,
che non riconoscono la cittadinanza ai musulmani, hanno imposto il coprifuoco e inviato
l’esercito. L’Onu, invece, ha espresso preoccupazione chiedendo di visitare i campi
profughi dove ci sono migliaia di persone. Eugenio Bonanata ne ha parlato con
Stefano Vecchia esperto di Estremo Oriente:
R. – L’Onu vive
con difficoltà questa situazione, perché da un lato non può premere eccessivamente
su un governo che sta percorrendo una strada verso la democrazia che è stata auspicata
per decenni dalla comunità internazionale. Allo stesso modo, ha comunque la necessità
per il proprio statuto di intervenire per tutelare questa popolazione, queste persone
che in questo sono momento in pericolo di vita e che, per bene che vada, devono raggiungere
i campi profughi dove manca sostanzialmente di tutto, o cercare una fuga nel vicino
Bangladesh da cui però vengono abitualmente respinti.
D. – Qual è il ruolo
dello Stato centrale?
R. – Dovendo intervenire per separare i birmani buddisti
dai Rohingya musulmani, lo Stato sta usando indubbiamente il pugno di ferro. Molte
delle vittime, soprattutto tra i Rohingya – dicono le fonti locali – sono dovute appunto
all’intervento delle forze armate. Però, il governo dice: “Noi dobbiamo intervenire
in questo modo per tenere separati questi due gruppi, perché altrimenti si andrebbe
verso una vera e propria guerra civile”. Allo stesso modo, però, la comunità internazionale
si muove affinché i Rohingya vengano tutelati: si tratta di una delle maggiori – se
non la maggiore – minoranze al mondo, che non ha nessun riconoscimento legale e nessuna
tutela formale. Di conseguenza, sono almeno 800 mila individui che nessun Paese vuole
e non esistono sulla carta, mentre di fatto ci sono. E da decenni costituiscono una
spina nel fianco non soltanto per il governo birmano e per il governo del vicino Bangladesh
- due Paesi caratterizzati, tra l’altro, da grande povertà - ma costituiscono anche
una delle maggiori fonti di preoccupazione per molti Paesi della regione dove arrivano
numerosi e in molti casi perdono la vita nelle traversate.
D. – Come se ne
esce?
R. – E’ difficile, in questo momento, prevederlo. Nel momento in cui
gli scontri sono più accesi, la situazione sembra andare soltanto verso un peggioramento.
Il problema è di creare una condizione perché ci sia una tregua effettiva. Questo
però vorrebbe dire, di fatto, separare due comunità fortemente interconnesse. Ad esempio,
la capitale dello Stato Rakhine – Sittwe – è una città sostanzialmente musulmana svuotata,
in queste settimane, della sua popolazione. Quindi, si tratta di trovare un sistema
per separare, in questo momento di conflitto, le due etnie e poi di stabilire delle
basi, delle regole legali minime che tutelino in qualche modo la minoranza Rohingya,
cercando di integrarla o sul territorio birmano o sul territorio bengalese. Però,
finché questo non sarà fatto, la situazione sarà evidentemente sempre aperta a condizioni
drammatiche, come quelle a cui stiamo assistendo in questi giorni.