2012-10-26 15:49:01

Birmania: scontri tra buddisti e mulsulmani Rohingya. Oltre 100 i morti


In Birmania, proseguono gli scontri tra buddisti e musulmani di etnia Rohingya. Sono scoppiati domenica nello stato di Rakhine, ad ovest, dove la componente di origine araba-bengalese è maggioritaria rispetto alla popolazione locale. Il bilancio è di 112 morti, migliaia di sfollati e centinaia di abitazioni date alle fiamme. Le autorità, che non riconoscono la cittadinanza ai musulmani, hanno imposto il coprifuoco e inviato l’esercito. L’Onu, invece, ha espresso preoccupazione chiedendo di visitare i campi profughi dove ci sono migliaia di persone. Eugenio Bonanata ne ha parlato con Stefano Vecchia esperto di Estremo Oriente:RealAudioMP3

R. – L’Onu vive con difficoltà questa situazione, perché da un lato non può premere eccessivamente su un governo che sta percorrendo una strada verso la democrazia che è stata auspicata per decenni dalla comunità internazionale. Allo stesso modo, ha comunque la necessità per il proprio statuto di intervenire per tutelare questa popolazione, queste persone che in questo sono momento in pericolo di vita e che, per bene che vada, devono raggiungere i campi profughi dove manca sostanzialmente di tutto, o cercare una fuga nel vicino Bangladesh da cui però vengono abitualmente respinti.

D. – Qual è il ruolo dello Stato centrale?

R. – Dovendo intervenire per separare i birmani buddisti dai Rohingya musulmani, lo Stato sta usando indubbiamente il pugno di ferro. Molte delle vittime, soprattutto tra i Rohingya – dicono le fonti locali – sono dovute appunto all’intervento delle forze armate. Però, il governo dice: “Noi dobbiamo intervenire in questo modo per tenere separati questi due gruppi, perché altrimenti si andrebbe verso una vera e propria guerra civile”. Allo stesso modo, però, la comunità internazionale si muove affinché i Rohingya vengano tutelati: si tratta di una delle maggiori – se non la maggiore – minoranze al mondo, che non ha nessun riconoscimento legale e nessuna tutela formale. Di conseguenza, sono almeno 800 mila individui che nessun Paese vuole e non esistono sulla carta, mentre di fatto ci sono. E da decenni costituiscono una spina nel fianco non soltanto per il governo birmano e per il governo del vicino Bangladesh - due Paesi caratterizzati, tra l’altro, da grande povertà - ma costituiscono anche una delle maggiori fonti di preoccupazione per molti Paesi della regione dove arrivano numerosi e in molti casi perdono la vita nelle traversate.

D. – Come se ne esce?

R. – E’ difficile, in questo momento, prevederlo. Nel momento in cui gli scontri sono più accesi, la situazione sembra andare soltanto verso un peggioramento. Il problema è di creare una condizione perché ci sia una tregua effettiva. Questo però vorrebbe dire, di fatto, separare due comunità fortemente interconnesse. Ad esempio, la capitale dello Stato Rakhine – Sittwe – è una città sostanzialmente musulmana svuotata, in queste settimane, della sua popolazione. Quindi, si tratta di trovare un sistema per separare, in questo momento di conflitto, le due etnie e poi di stabilire delle basi, delle regole legali minime che tutelino in qualche modo la minoranza Rohingya, cercando di integrarla o sul territorio birmano o sul territorio bengalese. Però, finché questo non sarà fatto, la situazione sarà evidentemente sempre aperta a condizioni drammatiche, come quelle a cui stiamo assistendo in questi giorni.







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