Siria: infuria la guerra a Damasco e Aleppo. Sparatoria al confine con la Giordania
Dopo la Turchia e il Libano, si infiamma anche il confine tra Siria e Giordania. Un
soldato di Amman è rimasto ucciso all'alba di ieri negli scontri scoppiati con alcuni
miliziani lungo la frontiera. La Giordania ha confermato inoltre di aver arrestato
11 persone accusate di avere collaborato a un complotto per compiere attentati a centri
commerciali e sedi della sicurezza del Paese, affermando che i sospetti provenivano
dalla Siria. Intanto in varie aree del territorio siriano proseguono i combattimenti:
una donna, i suoi quattro figli e una ragazza di 16 anni sono rimasti uccisi durante
i bombardamenti in un sobborgo di Damasco, mentre combattimenti sono in corso anche
ad Aleppo. Proprio la città più popolosa della Siria è diventata il simbolo della
guerra che sta insanguinando il Paese. La città da settimane è teatro di battaglie
senza esclusioni di colpi, in cui a pagare il prezzo più alto sono i civili. Sulla
drammatica situazione che vivono i suoi abitanti, Salvatore Sabatino ha intervistato
il collega Cristiano Tinazzi, appena rientrato da Aleppo: R. - La situazione
che ho trovato è di estremo disagio per la popolazione civile. Chi può va via, cerca
di scappare dalla Siria. Il problema è che adesso, all’interno del confine siriano
si è formata una tendopoli di circa novemila persone che non possono neanche più andare
in Turchia, perché il campo profughi è pieno, quindi si trovano in una zona che è
una terra di nessuno e sono lì, fermi, aspettando la possibilità di poter passare.
D.
- Ci sono numerose testimonianze anche di grande solidarietà tra la popolazione...
R.
- Io - purtroppo – ho avuto la sfortuna di assistere ad un bombardamento in diretta
proprio nei pressi dell’ospedale di Al Chifa, ad Aleppo. Dopo pochissimi secondi,
forse un minuto o due, le macchine di civili che andavano avanti e indietro, correvano
per portare aiuto ai feriti, per tirarli fuori dalle macerie rischiando di essere,
a loro volta, colpiti perché comunque continuavano a cadere proiettili di mortaio.
Le persone poi vengono ospitate da altre famiglie, si cerca di dividere quel poco
che si ha. Come a Sarajevo si formano code lunghissime per il pane e fin dalle sette
del mattino: uomini, donne e bambini in fila, divisi, aspettando il loro turno. È
una situazione che mette tutti a dura prova. Devo dire che poi adesso è stata colpita
anche la comunità cristiana; vedremo che cosa succederà. Però quella zona della comunità
cristiana è sotto controllo governativo, per cui è anche difficile parlare con i cristiani
e cercare di capire il loro stato d’animo.
D. – Aleppo, da cuore economico
della Siria, si è trasformata in cumolo di macerie ed epicentro delle violenze. C’è
comunque una reazione della gente di fronte a quanto sta accadendo o no?
R.
- Non vedono la fine del tunnel. Purtroppo la gente pensa a quello che deve fare ogni
giorno per “tirare a campare”. L’economia è ferma. Quasi più nessuno lavora, e si
vive del minimo di sussistenza grazie alle raccolte di fondi organizzate nei villaggi
dove qualcuno che ha più soldi di altri li mette a disposizione per comprare la farina,
le lenticchie, un po’ di grano... le cose che servono per mangiare tutti i giorni.
Di carne se ne vede poca sulle tavole delle persone. La benzina è aumentata incredibilmente,
e la gente sta aspettando che in qualche modo la situazione si sblocchi o che dall’esterno
arrivino degli aiuti. Purtroppo non può entrare nessuno; nessuna ong riesce ad entrare
in maniera concreta nel territorio siriano per aiutare la popolazione colpita da questa
grave sventura.
D. - Insomma, come in tutte le guerre, anche quello che sta
avvenendo in Siria è più drammatico di quello che possiamo immaginare noi che non
siamo nel Paese...
R. – Sicuramente. Io credo che non ci sia una percezione
concreta. È la stessa cosa che è accaduta in Bosnia: fino a quando tutti focalizzano
lo sguardo su quegli avvenimenti, tutto il mondo si mobilita. Però ormai è passato
un anno e mezzo e 30 mila morti, e ancora si continua a non parlare della Siria, a
non parlare della situazione siriana a meno che non ci sia un’autobomba o che i morti
superino le due – trecento unità ogni giorno; allora in quel caso, magari, esce un
articolo sui giornali. Però la realtà di tutti i giorni è veramente terrificante.
A noi giornalisti è bastato stare una settimana – dieci giorni per poter uscire traumatizzati
da quella realtà, ma sapendo che comunque saremmo andati da qualche parte, e potevamo
uscire. La maggior parte delle persone non ha nessun posto dove andare.
Intanto
si affievoliscono le speranze per il cessate-il-fuoco in occasione della festa musulmana
del Sacrificio, chiesto dall'inviato di Onu e Laga Araba, Brahimi, che ieri a Damasco
ha incontrato il presidente Assad. Una richiesta, la sua, reiterata più volte in queste
settimane. A sottolineare le fragili speranze al riguardo, il numero due della Lega
Araba, Ahmad ben Hilli, a margine del Forum internazionale sull'energia a Dubai. Sulla
possibilità reale di far tacere le armi, Salvatore Sabatino ha intervistato
Maria Grazia Enardu, docente di Storia delle Relazioni Internazionali presso
l’Università di Firenze:
R. - La tregua
sarebbe di soli quattro giorni ed è una cosa minima! Per arrivare a qualcosa di più
serio occorre che discutano i veri soggetti: gli occidentali e la Russia, che ha enormi
interessi in Siria.
D. - Brahimi in questi ultimi giorni, Annan prima: gli
inviati in Siria non sono riusciti a portare in primo piano il dialogo tra le parti.
Può essere considerata questa l’espressione più concreta dell’impotenza della Comunità
internazionale di fronte ad una crisi così difficile?
R. - Credo che tutto
dipenda dall’estrema complicazione del quadro interno siriano, che era complicato
già quando le cose andavano bene. Figuriamoci ora, dopo un anno e mezzo di guerra
civile vera…
D. - Ora i rischi di una regionalizzazione del conflitto diventano
sempre più concreti e quello avvenuto in Libano nelle ultime ore ne è la dimostrazione.
Cosa può, in questo momento, spegnere la miccia libanese?
R. - Soltanto un
serio colloquio tra occidentali, che mestano un pochino anche loro, e i russi che
difendono il loro porto sul Mediterraneo. Solo questo!
D. - E sulle responsabilità,
invece, di quanto è accaduto in Libano ci sono delle visioni che sono differenti…
R.
- Probabilmente in Libano sono stati i siriani e probabilmente in Libano non è stato
hezbollah, che - pur essendo un alleato dei siriani - non può essere così poco avveduto
da fare un gesto del genere, mettendo a rischio tutta la sua politica di questi anni.
D.
- La Turchia, da parte sua, ricopre un ruolo importantissimo nella regione: il fatto
che sia in prima linea nel conflitto siriano può essere un rischio per la stabilità
dell’intero Medio Oriente?
R. - No, perché la Turchia è vista da tutti come
un Paese tranquillo, stabile, che difende soltanto cose prioritarie come la sua questione
curda o, appunto, il disordine che può arrivare dalla Siria. Semmai la Turchia non
sa come intervenire efficacemente senza provocare disastri ancora maggiori.