Congo: nessuna notizia sui missionari rapiti. L'impegno della Caritas nel Kivu
Ancora nessuna novità dei tre missionari assunzionisti rapiti la sera di venerdì scorso
da un gruppo di uomini armati nel Nord Kivu, la regione congolese dove infuria lo
scontro tra esercito e gruppi ribelli appoggiati, secondo diverse fonti, anche da
milizie di Paesi confinanti. Sulla vicenda, Davide Maggiore ha raccolto la
testimonianza di don Gaspard Lukongo, coordinatore di Caritas Kindu:
R. – Monseigneur
l’éveque de Butembo-Beni, mons. Melchisedec Sikuli Paluku… Il vescovo di Butembo-Beni,
mons. Melchisedec Sikuli Paluku, ha rivolto un appello anche attraverso i media chiedendo
alle autorità politico-amministrative di impegnarsi per la liberazione dei preti che
a tutt’adesso risultano introvabili. Inoltre, si meraviglia del fatto stesso che siano
stati rapiti, perché non c’erano stati conflitti in precedenza, né con la popolazione
né con le autorità. Egli si indigna per il fatto che sono passati ormai molti giorni
e che non siano stati ancora ritrovati. La situazione generale qui da noi, all’est,
è che ci sono molti movimenti e gruppi armati e le nostre chiese sono spesso il bersaglio
preferito: si vuol fare tacere la Chiesa ad ogni costo perché è essa che denuncia
le ingiustizie, il male e c’è chi non vuole che quello che accade sia portato a conoscenza
di tutti. Il fatto provoca indignazione: perché prendersela con i sacerdoti, oltretutto
missionari, che non sono nemmeno di questo Paese, che vengono a portarci il Vangelo?
D.
– Vuole rivolgere un appello attraverso i microfoni della Radio Vaticana?
R.
– Je demande vraiment à tous les hommes de bonne volonté… Chiedo a tutti gli uomini
di buona volontà che condividono la nostra fede di comprendere le difficoltà nella
quale cerchiamo di viverla, soprattutto nell’est della Repubblica Democratica del
Congo. Che ci aiutino a far arrivare il nostro grido di disperazione a tutti i livelli
ai quali sia possibile trovare una soluzione, in modo che la popolazione possa ritrovare
la calma e la pace. Non si riesce più a vivere in pace: nelle case non si dorme più
perché si ha paura di essere violati, rapiti, minacciati di morte e di dover subire
ogni tipo di ingiustizia.
D. – La Chiesa, in questa situazione, da dei segni
di speranza. Uno di questi, è l’iniziativa di Caritas Kindu e di Caritas Goma per
la riabilitazione degli ex bambini-soldato…
R. – Pour nous a Kindu l’encadrement
a commencé en 2007… Per noi, a Kindu, la formazione è iniziata nel 2007: in quella
situazione di crisi, di guerra, di insicurezza era necessario occuparsi di quei bambini
strappati ai gruppi armati. Normalmente, i bambini sono il primo bersaglio delle milizie
armate, che si fanno scudo di loro e ai quali è impedito andare a scuola, ai quali
si insegna ad utilizzare le armi, a far soffrire gli altri. Noi cerchiamo con ogni
mezzo di rimettere in sesto questi ragazzi, che un tempo erano scolarizzati. Cerchiamo
di reinserirli nella scuola e anche nell’ambiente sociale. Nel 2007, abbiamo avuto
il primo supporto in tal senso da parte della Caritas italiana, e così in quell’anno
abbiamo potuto raccogliere 3.200 ragazzi.
D. – Quale situazione avete dovuto
affrontare, e in quali condizioni sono questi bambini-ragazzi? Quali metodi utilizzate
per la riabilitazione e per la formazione dei ragazzi?
R. – Il faut d’abord
avouer que au jour d’aujourd’hui la situation s’est… Innanzitutto, bisogna riconoscere
che oggi la situazione è molto migliorata: dopo cinque anni di accompagnamento, tanti
cambiamenti si sono verificati in questi bambini. Abbiamo voluto per prima cosa formare
le persone che avrebbero a loro volta accompagnato e formato i ragazzi e che in linea
di massima erano direttori di istituti scolastici o insegnanti degli stessi istituti.
Alla formazione hanno partecipato molti psicologi. Per quanto riguarda i bambini stessi,
abbiamo organizzato molte attività tese al loro reinserimento nelle famiglie e nella
scuola. A livello familiare, abbiamo favorito la ripresa del contatto tra i bambini
e le loro famiglie, perché molti bambini sono vissuti lontano dalle famiglie. La nostra
strategia è quella di cercare di far loro dimenticare il contesto nel quale sono cresciuti
per un certo periodo per portarli a comprendere che non devono avere paura di tornare
in famiglia e nemmeno di tornare a studiare a scuola tra gli altri bambini. Abbiamo
previsto anche incontri di gioco perché sappiamo che i ragazzi si distendono e si
aprono maggiormente nel gioco: giocano "con" l’altro, si aprono all’altro e inducono
anche l’altro all’apertura. E’ un modo per aiutarli a convincersi del fatto che sono
uguali agli altri ragazzi e che quindi è bene che vivano come gli altri bambini.