16 ottobre '43: Roma ricorda la deportazione degli ebrei. Le parole di uno scampato
Si sono aperte ieri mattina, davanti al Tempio Maggiore di Roma, con la deposizione
di una corona d’alloro, le cerimonie in ricordo della razzia dal Portico d'Ottavia
del 16 ottobre 1943, a seguito della quale oltre mille ebrei furono strappati dalle
proprie case e deportati ad Auschwitz. Tanti gli appuntamenti in programma che sono
culminati in una marcia silenziosa a ritroso lungo quel percorso dal quale in pochi
fecero ritorno. Presente alla cerimonia anche il premier italiano, Mario Monti. Il
servizio di Gabriella Ceraso:
Storici, studiosi,
testimoni, autorità: in tanti a Roma oggi vogliono ricordare quella immensa ferita
storica che fu la grande razzia del vecchio ghetto, iniziata alle 5.30 del mattino
con 100 tedeschi armati di mitra a circondare il quartiere e a invadere le case di
persone innocenti già isolate e private di molti loro diritti dalla promulgazione
delle leggi razziali. Quando la maggior parte dell’ebraismo europeo era già stato
eliminato si arrivò a colpire Roma. Il perché dallo storico Marcello Pezzetti:
“Sembrava
che la guerra fosse quasi finita. In quel momento, si è deciso di colpire la più antica
comunità ebraica del mondo della diaspora. Cuore storico dell’ebraismo, in una nazione
che aveva una tradizione anche cristiana, era la città della Chiesa, la città del
Vaticano, e gli stessi ebrei erano convinti che in questa città non sarebbe successo.
Oggi, finalmente comincia a essere chiara la coscienza che è qualcosa che ha colpito
tutti”.
Quella mattina tante famiglie furono tratte fuori a forza dalle
loro case e dal Portico d’Ottavia furono condotte al Collegio militare di Trastevere,
con destinazione i treni che portavano ad Auschwitz. Erano oltre mille, sono rimasti
in pochi. Lello di Segni è tra questi:
R. - Mio padre aveva fatto la
guerra del ’15-’18 e mi disse: "Speriamo bene, che non succeda niente, ma io ho una
paura matta". E aveva indovinato. Infatti, quella mattina hanno bussato alla porta
e c’erano i tedeschi. Mio padre ci ha detto: "State buoni, cercate di stare calmi
e fate tutto quello che dicono". I tedeschi mi dicevano di prendere quello, quell’altro…
Io l’ho fatto e le posso dire che tutto quello che ho fatto è servito almeno per fare
un viaggio leggermente più tranquillo. Mi hanno portato direttamente ad Auschwitz.
D.
– In quanti della sua famiglia siete arrivati ad Auschwitz?
R. – Tutti: io,
mio padre, mia madre, due fratelli e una sorella. Tanto è vero che ho salutato amichevolmente
mia madre e le ho detto: "Tanto dopo ci vediamo, vedrai che ci metteranno in campo,
io e papà lavoreremo, e voi aspetterete alla sera che rientriamo".
D. – In
quanti siete tornati?
R. – Io e mio padre.
D. – Quanti anni aveva allora?
R.
– 15 anni.
Dopo tanta brutalità, a 69 anni di distanza oggi durante le celebrazioni
emerge un aspetto positivo. Lo sottolinea Marcello Pezzetti:
“E' la presa
di coscienza che stanno avendo i giovani, gli studenti. Ho visto che vogliono ascoltare,
vogliono sentire, vogliono sapere”.