Ancora tensioni Siria-Turchia. Ankara risponderà "con più durezza" se non cesseranno
i colpi di mortaio
In Siria le forze governative hanno annunciato di aver iniziato un’offensiva nella
provincia di Homs e secondo l’opposizione ieri le vittime degli scontri sono state
almeno 170 in tutto il Paese: tra loro anche un cameraman della televisione statale
a Deyr az Zor. Ad Aleppo si è combattuto anche nel complesso della grande moschea
cittadina. Intanto il segretario alla Difesa americano Leon Panetta ha lanciato l’allarme
sulle armi chimiche, mentre proseguono le tensioni tra Damasco e la Turchia. E secondo
quanto riferisce la rete al Arabiya citando l'agenzia Anadolu, caccia turchi avrebbero
intercettato un volo di linea siriano e lo avrebbero costretto ad atterrare all'aeroporto
di Ankara. Il servizio di Davide Maggiore:
Le armi non
convenzionali in Siria poterebbero finire “nelle mani sbagliate”, ha spiegato Panetta,
e per questo gli Stati Uniti stanno “monitorando” la situazione. Washington, ha aggiunto
il segretario alla Difesa, sta dando sostegno all’opposizione, ma senza forniture
di armi. Panetta ha confermato anche la notizia riportata dalla stampa statunitense
secondo cui “da tempo” un gruppo di soldati americani si trova in Giordania. I militari
sono nel Paese per cooperare con le forze locali. Il capo di stato maggiore della
Turchia, Necdet Ozel, ha invece minacciato una risposta militare più violenta ad Assad,
se continueranno i tiri di mortaio dalla Siria verso il territorio turco, a cui Ankara
aveva già reagito nei giorni scorsi. Sul fronte interno, le forze lealiste impegnate
nel tentativo di riconquistare la città di Homs si sono scontrate con i ribelli anche
nelle località di Hula e Rastan. Il governo siriano ha rifiutato la richiesta di un
cessate il fuoco unilaterale avanzata ieri dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon,
che ha condannato anche la serie di attacchi terroristici avvenuti a Damasco: l’ultimo,
ieri, ha colpito un edificio dell’aeronautica.
La drammatica situazione siriana
vede coinvolti anche migliaia di profughi. Fra loro, anche numerosi cittadini iracheni
che avevano ricevuto asilo a Damasco dopo la guerra del 2003 e che si trovano dunque,
per la seconda volta in pochi anni, nella condizione di sfollati. Davide Maggiore
ha parlato della loro situazione con Rosette Hechaïme, coordinatrice regionale
di Caritas per il Nord Africa e il Medio Oriente:
R. – Il numero
dei rifugiati iracheni in Siria ha raggiunto il milione, e anche di più, durante questi
anni. Oggi, evidentemente il loro numero è diminuito, in quanto parecchi di loro sono
stati ospitati nei Paesi occidentali. Soprattutto, da quando è scoppiata la crisi
in Siria, si riscontra un flusso molto importante di rifugiati iracheni verso il Libano,
la Turchia e meno verso la Giordania. Questi rifugiati provengono da varie parte dell’Iraq:
sono sunniti, sciiti ed anche cristiani. Si tratta di famiglie, di individui, di gente
che ha lasciato tutto e che andando nei Paesi intorno ha cercato sia di trovare una
vita più tranquilla sia di avere un punto di appoggio prima di chiedere asilo in altri
Paesi.
D. – Quali erano le condizioni di questi rifugiati, una volta arrivati
in Siria?
R. – La Siria, essendo un Paese limitrofo, ha accolto gli iracheni
come ospiti. In un primo momento, non ci voleva nemmeno un visto per entrare in Siria.
Poi, con il tempo, il governo siriano si è premunito e ci sono voluti dei visti, perché
questo afflusso cominciava a pesare. Cosa facevano gli iracheni in Siria? Tante volte
si trattava di gente che non immaginava quanto tempo sarebbe rimasta. Qualcuno avendo
venduto tutto, per alcuni mesi aveva di che sopravvivere, ma presto doveva cercare
un lavoro. E a quel punto non era una cosa sempre facile, perché non avendo un permesso
di soggiorno – avevano documenti che non permettevano di lavorare – cresceva il numero
di gente che lavorava in nero. Chi è rimasto più di uno, due o tre anni ha conosciuto
periodi molto difficili, non vivendo una vita molto dignitosa.
D. – Sappiamo
che, oltre a cercare rifugio nei Paesi vicini, molte di queste persone stanno rientrando
nel loro Paese di origine. In Iraq ci sono dei rischi per loro?
R. – Il grande
rischio è che di nuovo si debba ricominciare tutto, perché chi è partito ha venduto
tutto – beni, proprietà, case – avendo bisogno di queste somme. Quindi, adesso si
tratta prima di tutto di identificare dove tornare e poi cosa fare, dove inserirsi.
E questa non è una cosa facile. Si parla adesso di decine di migliaia di persone che
tornano.
D. – Abbiamo citato anche la Turchia tra i Paesi che ospitano i rifugiati
iracheni. La cronaca di queste ore ci dice che il conflitto rischia di allargarsi.
Quali potrebbero essere le conseguenze dal punto di vista umanitario?
R. –
Questo è un futuro che veramente vorremmo non arrivasse: la possibilità che si allarghi
il conflitto. Sappiamo che la Turchia in passato, durante la Guerra del Golfo e in
tutti questi anni, ha avuto parecchi flussi di rifugiati, che venivano dall’Iraq.
Quello che cambia è il fatto che questa popolazione sia ancora una volta sradicata,
che ancora una volta debba rifare tutte le pratiche, chiedere asilo, ricominciare
da capo. E’ gente che ormai è anche ferita psicologicamente. Quale sarà il futuro?
E’ una grande domanda, che penso tutti noi dobbiamo farci: come fare perché questo
ennesimo esilio non duri anni.