Bce, Fmi e Banca Mondiale lanciano l’allarme crescita
“La crescita dell'economia mondiale si è indebolita e i rischi di un deterioramento
restano alti, soprattutto nell'Eurozona”. A dirlo è il Fondo Monetario Internazionale
in previsione delle assemblee annuali dell’organismo e della Banca Mondiale, a Tokyo.
Dati confermati anche dalle dichiarazioni del presidente della Bce, Mario Draghi,
all’Europarlamento, secondo il quale ''ci aspettiamo nel breve termine una debole
attività economica e la ripresa in seguito sarà molto rallentata''. Eppure, i segnali
che arrivano dai singoli governi dell’Eurozona sono di tutt’altro genere. Nelle scorse
settimane, più volte si è parlato di una crisi alle battute finali. Da cosa deriva
questa discordanza di vedute? Salvatore Sabatino lo ha chiesto all’economista
Carlo Altomonte:
R. – In realtà,
non ci sorprendono questi dati. Siamo tutti d’accordo che il 2012, e poi il 2013,
ha visto non solo un rallentamento dell’eurozona, ma anche in prospettiva un rallentamento
dell’economia americana, con l’aggiustamento fiscale che gli Stati Uniti dovranno
affrontare, e anche dell’economia cinese, in quanto sta passando da un’economia di
investimenti a un modello basato sui consumi interni: cambiamento che influirà in
maniera negativa sui tassi di crescita. Combinando questi tre elementi, il quadro
per la crescita mondiale è sicuramente negativo. Tuttavia, questo non vuol dire che
ci saranno gravi problemi da un punto di vista finanziario, perché sappiamo che le
banche centrali stanno dietro la crisi e quindi stanno aiutando molto la risoluzione
della crisi.
D. – Questi dati quindi disegnano un quadro generale, ma senza
lanciare allarmi preoccupanti…
R. – Fondamentalmente, da un mese sui mercati
finanziari si dice: la crescita sarà negativa, ma le banche centrali stanno dietro
all’economia, stanno sostenendo l’economia e quindi va bene così. E’ un po’ strano
da sentire, ma diciamo che, in qualche misura, è la certificazione da parte delle
agenzie internazionali di un qualcosa che i mercati hanno già da tempo metabolizzato.
D. – Anche perché bisogna dire che dietro le banche centrali comunque ci sono
gli Stati…
R. – Sì, ci sono gli Stati ed evidentemente c’è la volontà dei governi
- a livello globale, parlo – di evitare di cadere di nuovo in trappole perverse, di
spirali negative, di crescita negativa, di debito che aumenta e di ulteriore austerità...
D. – Il nuovo Fondo Salva-Stati permanente, varato a Lussemburgo, può di fatto
variare queste previsioni negative? Può cioè influire in qualche modo?
R. –
Il Fondo Salva-Stati è un pezzo della strategia concertata a livello della Bce. Nel
momento in cui Draghi ha deciso di intervenire, lo ha fatto nel quadro del Fondo Salva-Stati
e per cui, diciamo, è già stato incamerato nelle aspettative dei mercati.
D.
– Si è parlato tanto della crisi della Grecia, della crisi della Spagna, però probabilmente
la situazione più critica è quella della Francia. Le misure messe in campo da Hollande
sono sufficienti?
R. – No, perché non tagliano la spesa. Rischiano, quindi,
di finire nella spirale “maggiori tasse, minore crescita, maggior debito” e che noi,
purtroppo, abbiamo già visto.
D. – E’ un po’ quello che è successo anche in
Grecia?
R. – Sì, in una certa misura sì. Anche se la Grecia ha un serio problema
di raccolta fiscale: i greci non pagano le tasse e continuano a non pagare le tasse.
D.
– Per quanto riguarda l’Italia, invece, la politica di rigore messa a punto da Monti
sortirà qualche effetto positivo o la crisi continuerà a deprimere l’economia del
Belpaese?
R. – Noi dobbiamo metterci l’anima in pace: abbiamo cinque anni di
marcia nel deserto... Dobbiamo rifondare il funzionamento della macchina statale,
attraverso tagli della spesa pubblica. Solo attraverso questa cosa possiamo diminuire
la pressione fiscale.
D. – In una visione più globale della crisi, pesa più
l’Europa - che pur tra mille difficoltà sta comunque agendo - o gli Stati Uniti che
invece hanno assunto un ruolo attendista, forse in attesa proprio delle presidenziali
di novembre?
R. – L’Europa è la prima che ha iniziato ad affrontare i suoi
problemi strutturali nel contesto post-crisi e quindi è la prima che ha iniziato a
soffrire, però sarà la prima ad uscirne fuori. Gli Stati Uniti devono ancora iniziare
il loro processo di aggiustamento alla crisi.