Uto Ughi suona a Rebibbia: la musica è per tutti specie per chi soffre
Il celebre violinista Uto Ughi ha suonato ieri pomeriggio nel carcere di Rebibbia,
facendo tappa lì col suo festival Uto Ughi per Roma, che si concluderà mercoledì
prossimo all’Auditorium della capitale. “Ci ha reso nobili”, hanno commentato i detenuti.
Sentiamo le sue emozioni al microfono di Gabriella Ceraso:
R. - La musica
deve veramente entrare in ogni fascia di pubblico, tanto più in un pubblico sofferente.
Beethoven diceva che il compito dell’artista è cercare di alleviare le sofferenze
degli altri. L’arte è un momento di ricerca comune di bellezza, di sensibilità, di
armonia interiore con se stessi. L’ultima volta che andai - ma non l’ho fatto soltanto
a Roma, l’ho fatto anche a Milano, una volta a San Gemignano vicino Siena - si alzò
un detenuto e mi disse: “Se l’arte è libertà, le siamo grati per queste gocce di libertà
che ci avete dato oggi”. Queste sono parole molto toccanti che mi hanno sempre accompagnato.
Naturalmente, è gente che sta espiando, ma che nello stesso tempo, sta soffrendo.
D.
- È anche gente che non è abituata ad ascoltare un concerto. Quindi, forse l’atteggiamento
dell’ascoltatore del pubblico è diverso. Lei che cosa ha percepito?
R. - Guardi,
c’è maggiore sensibilità tra le persone che soffrono e che stanno espiando, piuttosto
che tra le persone che sono in libertà. Mi creda, oggi il pubblico è molto dissipato,
distratto da mille cose: raramente si concentra.
D. - E il suo impegno nello
scegliere anche il programma? Cosa pensa quando sa di dover andare in un carcere?
R.
- Naturalmente, penso di suonare musiche non troppo grevi, troppo drammatiche. Ad
esempio, Mozart va benissimo perché è un autore solare, libero, che anela alla libertà,
all’ottimismo, e così anche Vivaldi. Certamente non sceglierei Schumann. È musica
serena, musica che invita alla contemplazione, alla serenità, alla gioia. Mozart è
una specie di “acqua di una fonte” che zampilla senza impedimenti.
D. - Lei
non si risparmia mai con i detenuti a chiacchierare un po’, a dire qualcosa della
musica che suona. Perché?
R. - A me piace comunicare. Siccome oggi non c’è
una grande consapevolezza, una grande istruzione musicale, è utile spiegarla, in modo
che psicologicamente si possa essere più preparati a ricevere il messaggio della musica.
Una persona si è alzata e mi ha chiesto se potevo fare l’Ave Maria: ho scelto quella
di Gounod, che è la più serena, la più interiore. Parecchi l’hanno ascoltata in silenzio,
c’era un’atmosfera molto suggestiva.
D. - Questa del festival, è sicuramente
una tappa bellissima ed emozionante. Abbiamo altri due appuntamenti che la vedono
protagonista. Lei quando ha iniziato il festival ha detto: "Sono orgoglioso di poter
rinnovare questo impegno di diffusione della musica”. Qual è la sua riflessione, il
suo bilancio?
R. - È difficile fare un bilancio. Quando uno semina, semina
per un futuro. Può darsi che i frutti della semina arrivino dopo un po’ di tempo.
Oggi, c’è un’assoluta mancanza di volontà di insegnare la musica nelle scuole. La
musica è una materia completamente trascurata. È un peccato, perché c’è una miniera
inesauribile di capolavori. Bisogna cercare di fare in proprio quello che le istituzioni
non hanno in programma di fare. Bisogna che gli artisti, i musicisti si rimbocchino
le maniche, che escano dalla torre d’avorio e vadano incontro alla gente. Io avrei
un progetto che, se fosse accettato, sarebbe di grande utilità sociale e culturale:
quello di portare orchestre di conservatorio a fare un concerto mensile nelle scuole.
Sarebbe veramente una semina per il futuro, ma non perché ragazzi diventino musicisti,
ma perché la musica dà una disciplina interiore, uno sforzo di volontà e di concentrazione.
Insomma, io penso che bisognerebbe veramente svegliare le istituzioni pubbliche a
fare qualcosa, altrimenti siamo in ritardo di secoli rispetto ad altri Paesi.