Musei Vaticani. Conferenza internazionale sulla tutela del patrimonio etnografico
Conoscere e approfondire gli studi sulla materia Terra attraverso le collezioni etnografiche
per conservare le identità e condividere le responsabilità dei patrimoni culturali
del mondo. Questo il tema della seconda conferenza internazionale “Sharing Conservation”,
che vedrà riuniti, oggi e domani in Vaticano, esperti di tutto il mondo nel campo
del restauro e della conservazione. L’incontro è organizzato dal Laboratorio Polimaterico
del Museo Etnologico dei Musei Vaticani. Sull’importanza di questo museo e le ragioni
della conferenza, Michele Raviart ha intervistato padre Nicola Mapelli,
curatore delle raccolte etnologiche dei Musei Vaticani:
R. – Questo
museo è una voce aperta sui popoli di tutti il mondo. Sono custodite più di 80 mila
opere d’arte e oggetti che provengono dall’Asia, dall’America, dall’Africa, dall’Oceania
… Abbiamo oggetti della preistoria, di arte precolombiana e di arte islamica. Quindi,
non c’è continente, non c’è opera storica che non sia rappresentata in questo museo.
Infatti, quello che per noi è importante non sono gli oggetti in se stessi, considerati
come opere d’arte, ma gli oggetti come ambasciatori culturali. Per noi è importante
che ogni singolo oggetto, un vaso, un dipinto, una maschera, racconti la storia del
popolo che l’ha creata.
D. – Come nasce il museo e come vengono acquisiti i
reperti?
R. – Le radici del Museo etnologico sono lontanissime: nasce dalla
tradizione di effettuare donazioni e doni al Papa, nel corso dei secoli. Questi doni
vengono dall’Asia, dalla Cina e dall’America – quando si è aperta l’epoca delle grandi
scoperte sono arrivati doni al Papa, continuamente e da tutto il mondo. Il dono più
antico che abbiamo porta la certificazione del 1692 e si tratta di cinque manufatti
precolombiani di una etnia – i Tayrona – dell’odierna Colombia. Poi, nel 1925 ci fu
una grande esposizione qui, in Vaticano, organizzata da Papa Pio XI, per mostrare
l’apertura della Chiesa cattolica nei confronti dei popoli, delle culture, delle religioni
e delle spiritualità. Al termine dell’esposizione, che fu un grande successo, visitato
da oltre un milione di persone, il Papa disse: “Dobbiamo realizzare un Museo permanente”.
Da allora, la collezione è cresciuta soprattutto grazie alle donazioni fatte ai Papi.
D.
– Una volta arrivati i reperti, qual è il lavoro dei Musei Vaticani?
R. – La
prima fase è sicuramente quella di presentare questi doni al direttore e al Pontefice;
poi passano al Laboratorio Polimaterico, coordinato dalla dottoressa Stefania Pandozy,
dove vanno soggetti ad una prima analisi, ad un primo controllo.
D. – Il tema
della conferenza sulla conservazione e il restauro di quest’anno, è la terra. Perché
questa scelta?
R. – Questo argomento – la terra – non è stato scelto casualmente,
anche perché il termine terra può avere una duplice valenza: sia il materiale
che viene utilizzato per creare gli oggetti, sia il pianeta Terra. Quindi, si è voluto
giocare un po’ su questo duplice significato del termine per ricordare la passione
ecologica del Museo etnologico: per noi è molto importante questo concetto di rispetto
nei confronti dell’ambiente, di protezione dei popoli indigeni dalle minacce nei confronti
dei loro territori da parte di compagnie minerarie, della deforestazione… Il secondo
significato è legato al fatto che l’uomo, questo essere creativo, sa sfruttare questo
elemento che è la Terra per creare oggetti sia di uso quotidiano – come può esserlo
una ciotola per bere – ma poi anche creazioni che assumono il livello di produzioni
artistiche.
D. – E’ imminente la beatificazione di Catrina Tekhakwita, che
sarà la prima santa nativa nordamericana. Come si prepara il Museo etnologico a questo
avvenimento?
R. – Proprio in occasione di questo avvenimento, esporremo due
classi di oggetti. Anzitutto, metteremo in mostra una pipa di pace, un calumet
che fu donato a Papa Giovanni Paolo II da un nativo americano che siamo riusciti a
ricontattare in occasione dell’Incontro di Assisi del 1986; in secondo luogo, metteremo
in mostra anche le statue di uno scultore tedesco che si chiamava Ferdinand Pettrich:
sono statue molto belle e sono uniche nel loro genere perché nella prima metà dell’Ottocento
questo scultore fu uno dei primi a prendere i nativi americani come modelli.
D.
– Il legame tra uomo e oggetto da lui creato è per voi molto importante, tanto che
spesso cercate i discendenti di chi ha donato gli oggetti al Museo …
R. – Nel
nostro Museo sono conservati oggetti – soprattutto maschere – che furono donate dagli
Yagan, una etnia della Terra del Fuoco, intorno agli anni Venti. Sono andato nella
Terra del Fuoco e ho ritrovato la figlia dell’informatore che ha raccolto questa maschera,
e lei mi ha raccontato una storia molto toccante perché questa donna – che ormai ha
84 anni – è l’ultima che parla la lingua di questa etnia. E questo per noi è importante,
perché dimostra che dietro ad un oggetto c’è la storia di un popolo e nel caso specifico,
la paura per una cultura che rischia di andare perduta. E noi vogliamo tenere viva
questa cultura.
Ma come si prepara il Laboratorio Polimaterico a questa conferenza?
Michele Raviart lo ha chiesto a Stefania Pandozy, responsabile del laboratorio,
al quale lavorano sette donne:
R. – Siamo molto
emozionate e molto onorate di ospitare questo evento. Siamo state incoraggiate anche
dalla grande adesione alla giornata, che era stata organizzata lo scorso anno. I laboratori
di restauro, negli ultimi anni, hanno avuto veramente una grande trasformazione e
sono diventati proprio dei cantieri aperti. Attraverso l’esperienza e il rapporto
continuo con curatori come padre Mapelli, che ci insegna ad allargare il nostro orizzonte
a Paesi e mondi diversi, abbiamo sentito proprio l’esigenza di confrontarci con gli
studiosi, con gli operatori che lavorano oltre i nostri confini.
D. – Quale
metodologia di lavoro impiegate?
R. – Noi in questi anni stiamo avendo contatti
con tutto il mondo orientale, cercando di unire le metodologie, le competenze occidentali
con quelle che sono invece le competenze del mondo orientale, di confrontare i diversi
approcci e cercare di cogliere le parti migliori da entrambe le esperienze.
D.
– Il tema di quest’anno è la valorizzazione della materia "terra". Praticamente, il
Laboratorio come lavora la terra, nel senso più vasto del termine?
R. – Il
desiderio è proprio quello di muoverci verso nuove dimensioni, che rispettino anche
nella scelta dei materiali, dei metodi, l’ambiente e l’uomo. Quindi, vorremmo cercare
di andare verso un restauro sostenibile, che non intervenga in modo aggressivo, violento,
nei confronti della materia, proprio perché noi intravediamo al di là della materia
un mondo immateriale, intangibile, che è portatore di messaggi e di valori, che sono
più ricollegati all’uomo che alla materia.
D. – Chi parteciperà a questa conferenza?
R.
– In genere noi apriamo un bando di concorso attraverso il web. Abbiamo avuto più
di 25 richieste di partecipazione che provengono da tutti i continenti. Abbiamo l’Africa,
l’America Latina e tutte le rappresentazioni di approcci sia al patrimonio etnografico
che alla conservazione delle collezioni.