Un mese fa la scomparsa del card. Martini. Ai nostri microfoni, il suo segretario
In esclusiva alla
Radio Vaticana, a poco meno di un mese dalla morte del cardinal Martini, parla colui
che negli ultimi tre anni, è stato di continuo al suo fianco, assistendolo nella residenza
dei gesuiti di Gallarate. Don Damiano Modena vi aveva fatto ingresso tre anni
fa, dopo aver conosciuto il gesuita già all'epoca della tesi di dottorato, scritta
proprio su di lui. Quando il cardinale decise di sceglierlo come suo segretario, gli
chiese, in montagna, con tono austero e buono: "Te la sentiresti di accompagnarmi
fino alla morte?" E Don Damiano rispose: "Padre, se lei ritiene che io sia la persona
giusta, anche oltre, non c’è problema".
Qual è il suo ricordo? Sento
di esprimere un grazie al cardinale. Credo che la cosa più difficile nei rapporti
umani sia quella di entrare nella sofferenza di un’altra persona. E’ certamente la
parte più intima di ciascuno di noi. Non è facile entrarvi dall’esterno perché l’altro
tende sempre a tenerla protetta, un po’ come la parte degli affetti, e poi perché
non tutti sono in grado di entrarvi senza devastarla, romperla, rispettando quello
che ci si trova di fronte. Il cardinale ha permesso a me e ai suoi collaboratori infermieri
di entrare in questa parte intimissima della sua vita che è la sua sofferenza, la
sua malattia. Non siamo entrati in tutte le stanze perché resta sempre qualche camera
riservata per sé, però devo dire che per la maggior parte ci ha permesso di entrare
nella parte più preziosa della sua vita e di aiutarlo a viverla meglio, di accompagnarlo
in queste stanze della solitudine, del dolore fisico, della delusione, della mancanza
di possibilità di comunicare. Ecco, questa credo fosse soprattutto la sua più profonda
sofferenza. Fondamentalmente il dolore fisico - come lui stesso ha detto più volte
– non era molto grande. Spesso ripeteva: 'è una malattia che mi impedisce, più che
crearmi dolore'. L’impossibilità di comunicare lo aggrediva al cuore del suo essere
relazione, lui che è sempre stato un uomo di grande comunciazione. devo dire che abbiamo
anche giocato su questa fatica. Quando per esempio vedevo che la voce era particolarmente
bassa, anche quando c’erano i fisioterapisti, i logopedisti, io un giorno mi sono
nascosto, un po’ scherzosamente, mentre faceva gli esercizi e ho cominciato a cantare
Va’ pensiero chiedendogli di fare il playback e lui muoveva le labbra e tutti
ridevano, convinti che potesse essere proprio lui. Era divertente alle volte cercare
di sdrammatizzare e lui stava al gioco, volentieri.
Con quale atteggiamento
lei si è accostato a questo suo limite? Cercando di capire all’inizio quali
fossero le motivazioni fisiche, neurologiche della malattia. Cercando di combatterle
insieme, di fare gli esercizi insieme, di leggere qualche passo, di costringerlo sempre,
per esempio, fino al penultimo giorno, a recitare lui la parte della messa della consacrazione.
Lui, nonostante la voce bassissima, doveva fare questo sforzo. D'altra parte cercavo
di sollevarlo dalle cose più difficili, amplificando la sua voce, perché il limite
non si sottolineasse troppo al suo cuore, che ne soffriva già molto.
E’
stato detto di tutto sugli ultimi momenti della sua vita… La gran parte sono
falsità. E’ morto naturalmente, assistito e accompagnato in tutto. E’ chiaro che fino
a un certo punto si può intervenire, da un certo punto in poi bisogna solo accompagnare
il malato. Quando si capisce che non c’è più nulla da fare non c’è più nulla da fare.
Lo abbiamo accompagnato con l’affetto, con la preghiera, leggendo passi della Bibbia,
cantando anche, attorno al suo letto, tenendogli la mano. C’erano tantissime persone,
peraltro. Non è che la morte del cardinale sia stata sottratta alla pubblicità. La
sua vita è stata sempre pubblica e attorno a sé aveva trenta, quaranta persone, compresi
i medici, quindi non c’era nessun segreto.
Secondo lei, è stato strumentalizzato
il cardinal Martini da certa stampa?
Io non so giudicare questo, anche
perché non ho letto quasi nulla. Può immaginare, non mi interessava in quel momento.
Per me era morto un padre e vivevo il dolore della sua assenza, quindi non mi interessava
quello che dicevano. Però penso di sì, ma non saprei...
Cosa le piace ricordare
del pezzo di vita che lei ha avuto modo di condividere con lui? Il suo altissimo
senso della giustizia nei confronti di tutti: i poveri, gli ammalati, i sofferenti
che incontrava. Avrebbe voluto aiutarli tutti, consolarli tutti, liberarli tutti dalle
ingiustizie. E la sua accoglienza nei confronti di tutti. Non l’ho mai sentito esprimere
un giudizio negativo su qualcuno, mai. Questo mi ha colpito.
Come ricorda
quei funerali in Duomo, Don Damiano? Mi sono tolto gli occhiali. Perché io
sono miope e allora, togliendomi gli occhiali, non vedevo tutta la marea di gente
che c’era. Così pensavo di essere quasi da solo accanto a lui. Ero ancora un po’ stordito,
ho cercato di pregare molto, soprattutto.
Cosa le ha insegnato circa il
vivere e il morire? Forse è ancora presto per me capire, dare spessore alle
cose che ho imparato da lui. Circa il vivere, non giudicare nulla, lasciare a Dio
il giudizio e noi amare. Noi siamo fatti per amare. E circa la morte… beh, devo dire
che pensavo fosse più semplice morire. Invece ho visto che è complicato. Ho capito
che bisogna conquistarsi anche la morte. Non è così semplice neanche morire. L’ho
visto faticare molto. Io come prete arrivo di solito o cinque minuti prima o cinque
minuto dopo, quando muore una persona. Certamente le sofferenze delle persone le ho
viste ma mai in modo così costante e a lungo come ho visto la sua. Ho visto, insomma,
che non si muore in un istante. E’ proprio un cammino, un percosro nel quale bisogna
lasciarsi andare. Lasciarsi fare, e non è sempre facile perché – lui lo diceva spesso
– la morte è forse l'unico atto di fede che un uomo fa nella sua vita, perché è l’unico
nel quale tu non puoi contare assolutamente più su te stesso. Io credo che lui abbia
faticato molto a cedere il passo, a lasciare alla morte il passo, perché amava molto
la vita.
Ha dimostrato che il cristiano non è un superuomo, nonostante
la sua fede… Sì. Anzi, la fede non credo porti molto vantaggi. Complica le
cose su certi aspetti. I cristiani sono uomini normalissimi e lui in questo devo dire
che è stato un grande esempio di normalità.
Ricorda Don Damiano, quei momenti
in Duomo a Milano, quattro mesi fa, subito dopo l’incontro privato tra Benedetto XVI
e il cardinal Martini? In quella circostanza il cardinale volle andarlo a trovare
per dimostrare la sua solidarietà in un frangente difficile per il Papa e per la Chiesa.
Proprio lei ai nostri microfoni, amplificando la voce del cardinale, ci riferiva le
poche parole ma densissime espresse da Martini al Papa. "E' un momento difficile -
disse - ma le occasioni si trovano nei momenti difficili. Accettare queste cose dolorose
come dono è purificatorio. Ma la verità si compirà". Mi colpirono molto queste parole…
Lo
ricordo bene. Io credo sia stato un incontro tra due uomini che soffrivano molto.
Uno di loro non sapeva che sarebbe morto a distanza di due mesi e l’altro probabilmente
non immaginva che una volta diventato Papa avrebbe dovuto sopportare tante croci.
E’ stato un incontro in cui gli sguardi e le poche parole erano tese a consolarsi
reciprocamente, soprattutto il cardinale al Papa. Trovammo il Papa molto stanco e
sofferente e il cardinale ce la mise tutta, nelle sue possibilità nel dirgli che gli
era vicino, che era un momento di prova, che non doveva preoccuparsi.
L’eredità
spirituale del cardinal Martini per Don Damiano? E’ immensa. Per me credo sia
la misericordia. Essere annunciatori della misericordia. Gesù è sempre stato dalla
parte dei peccatori, in tutti i passi del Vangelo. Dall’inizio alla fine. Dalla nascita
alla morte. Credo dunque che l’eredità che il cardinale ci ha lasciato sia questa.
Una Chiesa autentica è una Chiesa che si mette dalla parte di chi ha sbagliato e lo
consola, innanzitutto, se non può fare altro, lo consola. (intervista a cura di
Antonella Palermo)