Il cardinale Sgreccia: aprire un orizzonte di speranza per i malati
Il dolore e la sofferenza umana alla luce della ragione e della fede cristiana
è il tema dell’incontro promosso dall Fondazione Ut Vitam Habeant, l’ente di
diritto canonico che opera nell’ambito della pastorale della vita, svoltosi lunedì
a Roma. Davide Dionisi ne ha parlato con il Presidente della Fondazione e promotore
dell’iniziativa, cardinale Elio Sgreccia:
D. – Una delle
sofferenze più gravi del malato è quella di sentirsi inutile perché i valori che
oggi contano sono, purtroppo, quelli della produttività e della gratificazione economica.
Per tale motivo viene considerato un peso, un rischio o addirittura un oggetto di
paura. In che modo gratificare la figura del malato, considerarla come essere umano,
non mortificarla?
R. – Il malato va compreso come persona, soprattutto nella
sua interiorità. Quando si trova in ospedale. Specialmente quando si trova in gravi
condizioni e ha più o meno consapevolezza anche del rischio della morte, vicina o
lontana che sia, ma comunque il pensiero della morte si affaccia sempre durante la
malattia seria, in questo caso dentro è preoccupato e teso: ha bisogno di essere compreso,
ha bisogno di dialogo. Questo perché il muro più difficile da abbattere è proprio
la paura del dolore e della morte: bisogna dare speranza. Allora, per dare speranza
occorrono premesse di ragione ma anche gli orizzonti della fede. Ed è per questo che
stiamo svolgendo queste conferenze pubbliche: per dare stimoli al pubblico ed anche
elementi fondativi di giudizio. Abbiamo parlato della Creazione, sia sotto l’aspetto
scientifico sia sotto l’aspetto di fede; ora parliamo del tema del dolore che è densissimo
di problematiche e di drammaticità. Questo, poi, non vale solo per il malato: vale
anche per il cittadino che lavora e che si impegna. Se non c’è davanti un orizzonte
di fiducia e di speranza, anche qualsiasi peso diventa carico di sfiducia, carico
di passività.
D. – Come rispondere al credente che soffre e che si scoraggia
nel momento di dolore?
R. – Pian piano, nel dialogo – se è possibile, naturalmente,
stabilire un dialogo confidenziale – bisogna riuscire a far capire che il dolore è
un momento di prova e di difficoltà che stimola qualche volta anche il senso della
solitudine, però è un momento prezioso: ha delle ricchezze. Tra queste, c’è solo un
esempio da dare: la crescita interiore, la speranza di tornare con un carattere più
forte a vincere e a lavorare, ma c’è anche e soprattutto l’apertura che il dolore
fa sull’eternità. E’ attraverso il dolore che Cristo ha redento il mondo, e noi continuiamo
a collaborare a questa redenzione.
D. – Davanti a chi soffre, l’atteggiamento
più comune è quello del silenzio. Quale invece dovrebbe essere la risposta di un credente?
R.
– Alle volte, il silenzio è necessario quando il soggetto attraversa una fase di riflessione,
di capacità di concentrazione e ha bisogno soltanto che gli si stringa la mano, che
si crei un varco per la comunicazione. Ma quando, non appena è possibile, con sincerità,
anche la semplice espressione “io prego per lei, sono vicino, deve avere coraggio
e speranza”, queste parole possono introdurre discorsi sempre più fortificanti.