Film su Maometto. Al Qaeda incita alla violenza, dilaga la protesta islamica
Non si placano le contestazioni seguite al film, ritenuto blasfemo, su Maometto. L’Onu
condanna le violenze, mentre il ramo yemenita di Al Qaeda ha esortato i musulmani,
che vivono in Occidente, a colpire obiettivi chiave. Forze statunitensi stanno convergendo
su Yemen e Libia, mentre i talebani Afghani hanno rivendicato l'attacco alla base
militare di Camp Bastion, dove è di stanza il principe Harry e dove sono morti due
marines. I terroristi hanno messo in relazione l’attentato con la diffusione della
pellicola ritenuta offensiva per l’Islam. Massimiliano Menichetti:
Al Qaeda cavalca
le violenze che si sono innescate per il film ritenuto offensivo per l’Islam e dallo
Yemen esorta a colpire ogni obiettivo sensibile ed uccidere, come già avvenuto in
Libia. Rafforzano, il messaggio di morte, i talebani Afghani che hanno rivendicato
l'attacco alla base militare di Camp Bastion, nella provincia meridionale di Helmand.
Qui sono morti due marines ed è di stanza il principe Harry, ritenuto obiettivo primario
per i terroristi. In queste ore centinaia di militari egiziani hanno usato il pugno
duro contro i manifestanti che questa mattina hanno occupato piazza Tahrir, al Cairo.
Nelle ultime 24 ore oltre 18 Paesi, sono stati coinvolti dalla furia degli integralisti
islamici. Dal Marocco all’Australia, passando per Libia, Egitto, Pakistan, Iran, Yemen,
India, Indonesia si sono registrate manifestazioni, bandiere bruciate, cortei. Misure
di massima sicurezza sono state prese dal governo di Khartoum, in Sudan, dove ieri
sono state assaltate le ambasciate di Gran Bretagna, Usa e data alle fiamme quella
Tedesca. L’Onu ha condannato le violenze che definisce ingiustificabili e chiesto
ai governi di assicurare “massima protezione” alle sedi diplomatiche. Promette rigore
la Tunisia, teatro ieri di un ennesimo assalto all’ambasciata Usa; serrati i controlli
in Libano dopo gli scontri, a Tripoli e gli assalti a ristoranti legati a catene americane
e ad una scuola. Nove le vittime complessive confermate in questa orrenda giornata
di violenza. “Porteremo i killer di Bengasi dinanzi alla giustizia; gli Stati Uniti
non si ritireranno mai dal mondo” è la ferma intenzione espressa dal presidente Usa
Obama che, ieri, ha accolto le salme dei quattro americani uccisi a Bengasi l’11 settembre
scorso ed ufficializzato al Congresso lo spostamento di forze di sicurezza in Libia
e Yemen.
Sulla situazione Emanuela Campanile ha raccolto il commento
di Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica all'Università Cattolica di Milano:
R. – Dire che
il film sia solo un pretesto significa sminuire il senso di offesa che i fedeli musulmani
hanno nei confronti di chiunque attacchi la loro religione e le basi fondanti della
loro religione. Detto questo, è evidente che c’è un’agenda politica che è preparata
da anni – nel caso di al Qaeda – e da mesi nel caso dei salafiti, e questo film, questo
incidente rientra perfettamente nei loro piani.
D. – Quindi, possiamo dire
che non è la società civile che si sta scatenando per protesta?
R. – Teniamo
presente che il concetto di società civile in certi Paesi è molto diverso dal nostro,
tanto è vero che la maggior parte delle proteste sono avvenute in Paesi con una forte
presenza tribale come nello Yemen, in Libia, in Afghanistan oppure in Paesi dove ci
sono forti tensioni politiche. Allora il film serve, è un pretesto per portare avanti
le proprie agende politiche. Lo si vede, ad esempio, benissimo in Egitto. Lì, al di
là dello sdegno che accomuna tutta la popolazione musulmana e non solo, sono stati
i salafiti i più aggressivi ed i più violenti. Perché? Perché i salafiti vogliono
premere sul presidente Morsi, che è un presidente islamista, dei Fratelli musulmani;
ma i salafiti li vogliono condizionare e vogliono rubare loro un po’ la scena.
D.
– Che cosa possiamo prospettare, ovviamente in riferimento al futuro più prossimo?
R.
– La Primavera araba sembrava dover portare una ventata di cambiamento e l’ha portata;
ma non mi sembra stia portando né una grande democrazia reale né una grande stabilità.
Quello che sembra stia a venire - oltre alle guerre civili e sanguinose come in Sira,
come gli scontri passati in Bahrein, in Yemen e in Libia - è un sistema di “democrazie
illiberali”, dove una maggioranza – in questo caso i partiti islamisti – prende il
potere e vuole condizionare sempre più tutta la società, anche le minoranze non musulmane.
Lo si vede bene in Tunisia dove un partito islamico, Hennada, che doveva essere un
partito molto moderato, pragmatico in realtà in pochi mesi, cambiando la Costituzione
in modo estremamente peggiorativo per le donne, per le minoranze, ha dato segnali
effettivamente preoccupanti.
D. – Quindi, sarà più difficile anche trovare
punti di contatti nel dialogo?
R. – Non c’è alternativa al fatto del dialogo,
di parlarsi e di tenere aperti dei ponti. Quello che rimane è la difficoltà, anche
perché non solo ci sono differenze valoriali ma, soprattutto con il mondo sunnita,
non ci sono autorità religiose, gerarchiche ed è quindi molto difficile instaurare
un dialogo che sia accettato da tutti. E soprattutto io credo che dalla parte del
mondo islamico ci sia davvero bisogno di una forte discussione interna, di rinnovamento
per avere un atteggiamento meno dogmatico, meno letterale nella interpretazione della
propria legge religiosa. Per avere un vero dialogo occorrerebbe, da parte dei musulmani,
una maggiore flessibilità al loro interno, per tollerare letture meno rigidamente
uniformi.