A L’Aia, la Corte Penale Internazionale ha inflitto 14 anni di prigione al « signore
della guerra» Thomas Lubanga, originario della Repubblica Democratica del Congo. In
Sierra Leone, il Tribunale dell’ONU che ha giudicato l’ex-Presidente della Liberia
Charles Taylor, lo ha condannato a 50 anni di carcere. Nell’uno come nell’altro caso,
parte dell’opinione pubblica africana si è dimostrata insoddisfatta. Per il condannato
de L’Aia, le voci critiche denunciano una certa moderazione nella pena, se rapportata
ai crimini di efferata gravità commessi. Per Charles Taylor, alcuni non condividono
l’opportunità datagli di ricorrere in appello. Nell’uno come nell’altro caso, l’Africa
fà fatica a vedere riconosciuto quel che realmente la popolazione desidera riguardo
alle questioni di giustizia.
Se aggiungiamo il malessere di coloro che ritengono
che la giustizia non sarà mai veramente «internazionale», fino a quando non si occuperà
di tutti i crimini, e non solamente di quelli africani, la confusione è totale. È
un dato che il mondo evolve secondo una logica frammentaria e talvolta incoerente,
al giorno d’oggi. Gli attori, e dunque i responsabili dei misfatti, possono anche
essere noti, ma i mandanti non sempre emergono e gli interessi, con i meccanismi alla
base dei reati, non sono facilmente individuabili. Inoltre, la giustizia è un processo
complesso: non si ferma all’enunciazione delle pene. Il perseguimento di una piena
giustizia include il rispetto di un certo rigore anche in fase di giudizio dei crimini,
ed equilibrio nella scelta delle sanzioni previste. Papa Benedetto XVI ha affrontato
la questione in termini di «coscienza» per ciascuno di noi. La «globalizzazione» in
corso implica necessariamente anche una «condivisione» delle responsabilità, senza
per questo attenuarle. Tale situazione impone ai governanti il compito di guidarci
nel rispetto del Diritto, agendo in modo da non dare luogo ad ingiustizie. «Anche
nell'ambito delle cause immateriali o culturali dello sviluppo e del sottosviluppo
possiamo trovare la medesima articolazione di responsabilità» ha scrittoPapa
Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate (N°22).
In occasione
dei due Sinodi continentali, nel 1994 e nel 2009, i vescovi africani hanno posto i
temi della giustizia, della pace e della riconciliazione al centro delle loro preoccupazioni.
E nel documento post-sinodale « Africae munus » Benedetto XVI ricorda che il processo
di pace e di riconciliazione impegna i colpevoli, ma anche le stesse vittime e i dirigenti.
«Per diventare effettiva, questa riconciliazione dovrà essere accompagnata
da un atto coraggioso e onesto: la ricerca dei responsabili di quei conflitti, di
coloro che hanno finanziato i crimini e che si dedicano ad ogni sorta di traffici,
e l’accertamento della loro responsabilità. Le vittime hanno diritto alla verità e
alla giustizia. È importante attualmente e per il futuro purificare la memoria, al
fine di costruire una società migliore, dove simili tragedie non si ripetano più»
(Africae Munus, N° 21).
Il richiamo della Chiesa indica dunque
la base di partenza e ricorda la direzione da seguire, offre la bussola: la giustizia
degli uomini, quando appare in affanno, può trarre forza ed ispirazione nella giustizia
di Dio, che offre «l’orizzonte verso il quale deve tendere per realizzarsi
pienamente» (Africae Munus, N° 25). Ed essendo un
orizzonte aperto da Dio, che è Amore, una giustizia «giusta» porterà di sicuro verso
terreni non seminati di frustrazione, di sdegno e di odio. Che i dirigenti lo comprendano,
che i popoli – specialmente i battezzati – lo vivano nella vita di ogni giorno.
A
cura di Albert Mianzoukouta (programma francese per l’Africa)