Afghanistan: crudele violenza contro due bambini. L'esperto: i ribelli si rilanciano
Una settimana di intensa violenza in Afghanistan. Dopo il massacro di 17 persone decapitate
ad una festa giorni fa, è giunta notizia oggi di altri due bambini, di 12 e 6 anni,
uccisi nello stesso modo nelle province, lontane fra loro, di Kandahar e Kapisa. Le
forze di sicurezza afghane ed internazionali hanno effettuato undici operazioni militari
in sette in cui sono morti 87 insorti. Del picco di violenza e della situazione di
equilibri politici Fausta Speranza ha parlato con il prof. Marco Lombardi
dell’Università Sacro Cuore di Milano, esperto di politiche di sicurezza:
R. – E’ sicuramente
drammatico quello che è accaduto: sono state uccise delle persone – bambini e donne
– perché partecipavano ad una festa. Questo ci fa pensare: è un segnale molto chiaro
sulla linea di quello che gli “insurgents”, i ribelli, stanno facendo in questi mesi.
Sostanzialmente si stanno posizionando ed è come se dicessero: “Guardate che non è
cambiato niente. Magari sul piano militare, le abbiamo prese, ma fra un anno, un anno
e mezzo, quando gli occidentali non ci saranno più, lo stile di vita tornerà ad essere
quello di prima. Guardate che la musica occidentale non si ascolta, che le feste non
si fanno, perché se si fanno queste cose, noi interveniamo”.
D. – Ci aiuta
a capire qualcosa degli equilibri politici in questo momento in Afghanistan?
R.
– Sì, perché entra evidentemente in gioco nel messaggio brutale che è stato dato.
Sicuramente ci sono le diverse fazioni degli “insurgents” che stanno cercando di capire
chi ha il peso per contrattare. D’altra parte, il dialogo è necessario. Il messaggio
più forte che emerge in definitiva è: “Se non volete che le cose tornino esattamente
come prima, troviamo un meccanismo, tra istituzioni legittimate dagli internazionali
e istituzioni che non sono legittimate dagli internazionali, per aprire una forma
di dialogo”. E solo con un accordo precedente - secondo me - all’abbandono da parte
della compagine occidentale, che possiamo cercare di non far precipitare le cose fra
un anno”.
D. – Ma chi sono gli attori in gioco in questo momento in Afghanistan?
Lo ricordiamo?
R. – E’ una domanda difficilissima, nel senso che abbiamo sicuramente
delle etichette. Abbiamo quelli che noi chiamiamo “insurgents”, che sono quelli che
abbiamo sempre chiamato terroristi, ma che sono tutt’altro che omogenei al loro interno,
sia per appartenenza religiosa sia per appartenenza tribale, sia per le spinte che
stanno dietro a questi gruppi, molti dei quali fanno gli interessi di Paesi che sono
attorno all’Afghanistan. Non dimentichiamo che attorno all’Afghanistan ci sono Paesi
tutt’altro che “stabili”, o comunque interessati a combattere tra di loro: India,
Pakistan, i Paesi ex sovietici del Nord. L’Afghanistan, in questo momento, è un enorme
playground in cui molto spesso quelli che chiamiamo ribelli sono portatori
di interessi di altri. Da qui la necessità, comunque, se non si vuole avere una regione
sempre più esplosiva – non solo l’Afghanistan, ma tutta la regione – di avviare con
calma, con i tempi che saranno necessari, dialoghi interni.
D. – Ci ricorda
le scadenze dell’impegno della forza internazionale in Afghanistan?
R. – Sono
varie, ma diciamo che il nostro appuntamento è – tra un anno, un anno e mezzo – l’abbandono
delle forze consistenti e il mantenimento per almeno altri cinque o sei anni di interventi,
che vanno sulla formazione dell’esercito, degli ufficiali, delle forze di polizia,
dell’apparato giuridico ed altri tipi di interventi più orientati alla popolazione.
Quindi, diciamo che diamo tempo un anno, un anno e mezzo, alle forze militari, per
il ritiro, con un mantenimento poi di basso profilo, che continuerà ad esistere.
D.
– Le sembra pronto il Paese all’abbandono delle forze militari internazionali?
R.
– Direi proprio di no. Io sono convinto che con la situazione attuale – vediamo cosa
succede nel prossimo anno – sarà difficile. L’Afghanistan tornerà ad essere quello
che era dieci anni fa, dopo che ce ne siamo andati.