Dal 29 agosto fino al 9 settembre la spedizione italiana con 97 gli atleti - il più
alto numero di sempre - ha conquistato 28 podi totali: 9 ori, 8 argenti e 11 bronzi.
Qui lo schema completo dei risultati italiani: http://www.london2012.com/paralympics/country/italy/medals/index.html.
Di
seguito riportiamo alcune testimonianze raccolte prima e durante le Paralimpiadi di
Londra 2012.
LUCA PANCALLI: lo sport che plasma la cultura
Al microfono di Benedetta Capelli, il presidente del Comitato Paralimpico:
D. – Un numero
alto, quello degli atleti in gara per queste Paralimpiadi. Sembra che ci sia un’atmosfera
un po’ diversa, rispetto al passato: almeno, qui in Italia, si respira un grande entusiasmo
intorno a questa spedizione. E’ così?
R. – Sì: devo dire che onestamente anch’io
ho notato non solo un grande entusiasmo, ma soprattutto grande attenzione, sicuramente
maggiore rispetto al passato il che mi conforta. E questo è anche dimostrato dai 90
giornalisti della carta stampata accreditati qui a Londra e dalla presenza di Rai
e Sky in maniera massiccia. E’ evidente che il movimento di crescita del mondo paralimpico,
sia a livello internazionale che nazionale, sta portando i suoi risultati.
D.
– Ma c’è stato, forse, un salto per quanto riguarda la cultura dello sport o no?
R.
– Devo dire che stiamo assistendo – anno dopo anno, parlimpicamente parlando, quadriennio
dopo quadriennio – a un lento processo riformatore, dal punto di vista culturale,
che ha portato non tanto e non solo maggiore attenzione, quanto soprattutto un’attenzione
di qualità. Si è cominciato a perdere, da un po’ di anni a questa parte, atteggiamenti
pietistici e solidaristici per valorizzare la prestazione degli atleti che sono atleti
con la “A” maiuscola, per ricordare che sicuramente sono atleti con disabilità, sono
persone con disabilità, ma hanno scelto nella loro vita di essere atleti e come tali
devono essere rispettati nella loro dignità. Per cui credo che questa qualità, sicuramente
nuova in termini di attenzione, stia aiutando ancor più la grande famiglia dello sport,
sia esso internazionale che nazionale.
D. – Quali sono gli obiettivi di questa
spedizione italiana?
R. – Uno l’abbiamo già raggiunto ed è quello di avere
la spedizione, la delegazione più ampia di sempre dalle ultime paralimpiadi del 1988
a Seul, per cui in poco più di 20 anni siamo riusciti a tornare ad avere una massiccia
presenza. Questo significa che siamo riusciti a curare sia il top level, ma anche
l’attività promozionale. Io, naturalmente, mi aspetto – perché poi non dimentichiamo,
al di là dei discorsi culturali, che ci troviamo in una dimensione sportiva e su un
terreno di confronto agonistico – dagli atleti grandi risultati e sicuramente di migliorare
la nostra posizione nel medagliere rispetto a Pechino. Abbiamo le chance di poterlo
fare, possiamo dire la nostra in quasi tutte le discipline nelle quali siamo presenti,
per cui con questo ottimismo io mi appresto a vivere la Londra paralimpica. Fermo
restando che, da ultimo, il mio obiettivo di sempre è l’auspicio che poi, attraverso
le straordinarie imprese di questi atleti, le storie anche umane – perché, ovviamente,
dietro a ogni atleta c’è un uomo, c’è una donna, una persona – si possa arrivare a
tanti ragazzi e ragazze disabili del nostro Paese che ancora non hanno scoperto quanto
sia straordinario lo sport e quanto lo sport non ammetta differenze.
D. – Dott.
Pancalli, noi come Radio Vaticana abbiamo raccolto veramente tante storie di atleti
che si spendono e si impegnano ogni giorno per lo sport, in ogni senso. Le chiedo
se lei ha una storia, un volto che secondo lei più di altri rappresentino questa spedizione
azzurra...
R. – No, non ho assolutamente un volto che più di altri rappresenti
la spedizione azzurra. Ciascun atleta che è qui presente a Londra ha coronato già
un suo piccolo sogno, quello di recitare sul palcoscenico sul quale, sportivamente
parlando, qualsiasi atleta sogna di poter recitare, sia esso olimpico o paralimpico.
Poi, ognuno di loro – secondo me – rappresenta un esempio. Ce ne sono alcuni, ovviamente,
dai cognomi famosi che la comunicazione predilige e che sicuramente hanno il merito
di aver saputo mettersi in gioco, nonostante poi a volte la notorietà potrebbe giocare
al contrario. Però, nessuno di loro primeggia sugli altri. Diciamo che tutti ci identifichiamo
– me compreso, come presidente – nel portabandiera: Oscar De Pellegrin, che è colui
che avrà avuto l’onore di essere scelto per portare il nostro Tricolore e dietro il
quale tutti noi ci riconosciamo.
D. – C’è solo una nota – per così dire – stonata,
che un po’ ha preceduto questi Giochi, e cioè l’episodio di doping e quindi l’esclusione
di Fabrizio Macchi. Una parola su questo:
R. – Tanta amarezza, non una parola.
Sottolineo che non c’è stato un caso di doping, c’è stata la violazione di una norma
del codice antidoping. L’atleta non è stato trovato positivo: l’atleta è stato deferito
e pertanto è escluso dalla delegazione perché ha violato una norma del codice antidoping
che vieta agli atleti di intrattenere rapporti con soggetti inibiti. Questo lo dico
per chiarezza, perché poi la giustizia sportiva farà il suo corso e Fabrizio avrà
modo e tempo di difendersi. Ho detto “tanta amarezza” perché da un atleta che veste
la maglia azzurra io non me lo aspetto. Non me lo aspettavo. Un atleta che veste la
maglia azzurra ha dei doveri in più rispetto a qualsiasi altro atleta, ovvero sia
quello di sapere che riveste non soltanto un esempio per tutti gli altri ragazzi e
ragazze, atleti e atlete del Paese - proprio perché ha l’onore di vestire la maglia
azzurra - sia ha il dovere anche di rispettare quei codici etici e deontologici al
di là delle norme scritte sull’antidoping che rappresentano e che sono insite nella
maglia azzurra. Ecco. Da questo punto di vista, tanta amarezza.
ALEX
ZANARDI: una corsa senza tempo
Sono quasi un centinaio gli atleti italiani
presenti alle Paralimpiadi 2012, tra di loro anche Alex Zanardi, ex pilota,
conosciuto per il coraggio dimostrato dopo il drammatico incidente di macchina nel
2001 in Germania sulla pista del circuito Champcar e nel quale perse le gambe. A Londra
si presenta nella disciplina della handbike. Benedetta Capelli lo ha intervistato:
R. - In qualche
modo, il mio obiettivo è riuscire a tornare convinto di aver dato tutto e di aver
preparato questa gara nel modo migliore possibile. In verità il mio è un percorso
iniziato nel momento stesso in cui ho scoperto l’handbike, cioè nel 2007, in occasione
della maratona di New York alla quale partecipai. La cosa davvero eccitante e bella
è provarci: mettersi in strada e se io raccontassi che mi aspetto di incontrare la
felicità a Londra sarei falso, perché la felicità l’ho incontrata nel momento stesso
in cui ho deciso quale era l’orizzonte verso il quale volevo puntare. Ho intrapreso
questo percorso, ed è stata un’avventura davvero eccitante.
D. - La tua vita
ovviamente è stata caratterizzata anche da questo grave incidente nel 2001 in pista.
Molti atleti paralimpici parlano di un prima e di un dopo. Anche per te è stato così?
Si parla di una doppia vita?
R. - Fino ad un certo punto. Per me fortunatamente
è la stessa che continua perché il pronostico non era certo a mio favore. Io ho passato
più di 50 minuti con meno di un litro di sangue in corpo, ho avuto sette arresti cardiaci.
L’unica conseguenza che ricordo di quel giorno è la perdita degli arti inferiori,
che da un punto di vista scientifico, è assolutamente inspiegabile però a me va bene
così. Non vivo questa mia vita come una nuova vita, come qualcosa di diverso. Indubbio
è che quel giorno tutto quanto è saltato su un binario parallelo, che mi ha portato
ad entrare in contatto con delle realtà che io non avrei mai conosciuto. So quello
che ho trovato, e anche se potessi far marcia indietro, devo dire sinceramente mi
gratterei la testa e ci penserei due volte. Apparisse un genio, che con una bacchetta
magica mi potesse far riavere le gambe, forse accetterei, però lì per lì mi verrebbe
da dire: “Ma come, io devo andare a Londra! Aspetta un attimo, fammi ragionare!”;
è certamente una nuova occasione, non c’è dubbio.
D. - Tante volte si dice:
“Dove non arriva la scienza, arriva la fede”...
R. - Sono credente. Mi rifiuto
di pensare che noi tutti dipendiamo semplicemente da una fortunatissima combinazione
chimica. Nei momenti in cui occorreva mettere a posto le cose, e darsi da fare, mi
sono sempre tirato su le maniche ed ho sempre pensato che se dovevo mettere a posto
la mia gamba, bastava una chiave a brugola da quattro millimetri e non serviva guardare
in alto e chiedere a Dio un aiuto, perché, se proprio deve aiutare qualcuno, la lista
è molto lunga. Ci sono molte persone che stanno molto peggio del sottoscritto.
D.
- Quando le persone parlano di te evidenziano sempre la tua forza, il tuo sorriso.
È un profilo che ti piace, nel quale ti ritrovi? e soprattutto, dopo i momenti di
difficoltà che ci hai raccontato, cosa ti ha spinto a reagire così tanto e così bene?
R.
- Mi fa molto piacere che la gente mi veda come un uomo positivo, sorridente, perché
in realtà è un po’ quello che sono. Poi indubbiamente colpisce molto che una persona
che è stata protagonista di una vicenda come la mia, abbia ancora voglia di farlo.
Io ero sorridente prima, e lo sono ancora oggi. Con questo rispondo alla seconda parte
della domanda: non è servita una reazione perché per quanto grave ciò che mi è accaduto,
era comunque un episodio della mia vita. Poi il fatto che la gente oggi mi riconosca,
probabilmente più di quello che merito, mi semplifica la vita. La gente si ferma per
strada, mi riconosce, mi abbraccia, mi vuole bene. È una cosa che ti permette di vederti
spalancate tante porte.
ASSUNTA LEGNANTE: il lancio oltre il buio
Tra gli atleti in gara l’italiana Assunta Legnante, leader nel lancio
del peso. Alla sua prima partecipazione ai Giochi Paralimpici, la Legnante, non vedente
dal 2009, vanta già un curriculum di tutto rispetto, con due ori e due argenti alle
spalle e la partecipazione ai Giochi Olimpici di Pechino 2008. Luca Pasquali
le ha chiesto quali siano i suoi obiettivi:00:02:07:18
R. – Fare sicuramente
del mio meglio e poi quel che arriva, se più medaglie o una sola o due, meglio ancora,
sempre con la consapevolezza di dare il massimo.
D. – Lei partecipò alle Olimpiadi
di Pechino del 2008 e oggi alle Paralimpiadi. Ci racconta qualcosa della sua storia?
R.
– Io, in poche parole, ho partecipato a Pechino 2008, perché per 15 anni ho fatto
atletica leggera, tra i normodotati. Nel 2009, però, ho avuto un incidente che, col
passare degli anni, mi ha portato a perdere la vista. Quest’anno ho avuto la possibilità
di ritornare a gareggiare, ad allenarmi come prima, e quindi questo ha portato anche
la convocazione alle Paralimpiadi.
D. – C’è stato un momento in cui ha pensato
al ritiro?
R. – Io, per tre anni, dal 2009 a marzo scorso, non ho praticato
sport, anche perché ho provato in tutti i modi, nei vari ospedali, con i dottori,
a recuperare quel poco di vista che si poteva. Poi, alla fine, quando ho avuto la
certezza di rimanere cieca, allora ho detto: “Perché non ricominciare?”. Ci siamo
messi a tavolino e abbiamo deciso di riprovarci.
D. – Seguiva già le Paralimpiadi?
R.
– Ho seguito qualcosa in passato, ma non è che avessi una conoscenza in toto del mondo
paralimpico.
D. – C’è un modello o qualcuno a cui si ispira?
R. – No,
nessun modello. Non mi ispiro a nessun modello, perché l’atletica è uno sport a livello
individuale e alla fine devi solo guardare ciò che fai tu in pedana e tentare di fare
il meglio.
D. – Com’è la giornata tipo di un atleta, soprattutto a ridosso
dei giochi?
R. – Una giornata normale. In poche parole, vita casalinga, allenamenti
e nient’altro, tranne magari qualche uscita con gli amici.
D. – La sua storia
potrebbe essere da esempio per tante donne, che si trovano a dover affrontare momenti
di grande difficoltà. Quale messaggio si sentirebbe di lanciare?
R. – Io dico
sempre che la cecità è una condanna più mentale che fisica. Basta non soffermarsi
sui problemi di tutti i giorni e cercare di superarli, perché alla fine anche non
vedendo c’è una vita. Possiamo fare tutto ciò che fanno le persone che vedono.
MATTEO CAVAGNINI: innamorato del basket
Veterano delle Paralimpiadi
è Matteo Cavagnini, pivot della nazionale italiana di basket. Innamorato dello
sport e della famiglia, la sua vita è cambiata dopo una caduta dal motorino, da lì
l’inizio di una nuova avventura piena di soddisfazioni. L’intervista è di Luca
Pasquali:
R. – Sono
di Brescia, ho fatto un incidente a 14 anni, a 17 ho cominciato a giocare. Dopo vent’anni
sono alla mia seconda paralimpiade.
D. – Quando hai iniziato a pensare allo
sport dopo l’incidente e come mai proprio il basket?
R. – Ero già uno sportivo,
giocavo a calcio nella squadra del paese. Casualmente, due persone in un ufficio pubblico
mi hanno consigliato di provare la pallacanestro e da lì mi sono innamorato subito
di questo sport.
D. - Quando invece hai cominciato a pensare di partecipare
alle paralimpiadi la prima volta?
R. - E’ stata una passione che è nata piano,
piano. Ho cominciato a pensare di fare seriamente questo sport e dopo si vuole crescere,
si vuole raggiungere il massimo obiettivo.
D. - Mi racconti com’è Matteo Cavagnini
in campo?
R. - Lo dovrei far raccontare agli altri… Penso di essere un trascinatore,
per come mi descrivono… Sono Matteo Cavagnini.
D. - La tua vita fuori dal campo
invece?
R. - Sono sposato, ho due bellissime bambine, Eleonora di 8 e Aurora
di 4.
D. – Se dovessi scegliere un momento particolare della tua carriera sportiva,
che ricordi con particolare piacere o soddisfazione, quale sceglieresti?
R.
– Sicuramente, le Olimpiadi di Atene, che sono state le mie prime, però anche l’Europeo
che abbiamo vinto nel 2005 è stato forse il mio primo trofeo con la Nazionale da protagonista.
D.
- Obiettivi futuri della post Olimpiade quali sono?
R. – Non me ne sono ancora
posti, adesso sono ancora troppo preso da questa Olimpiade. Dopo deciderò cosa fare.
D.
- Una volta che hai smesso di giocare? Ci ha mai pensato?
R. – Purtroppo sì
perché a 37 anni bisogna cominciare a pensarci. Vorrei rimanere legato allo sport.
Lavoro in federazione canottaggio e questo mi permette di capire come funziona il
meccanismo federale e vorrei che la mia vita continuasse su questa strada.
OSCAR
DE PELLEGRIN: una freccia scoccata verso una nuova vita
Travolgente la
cerimonia di inaugurazione a Londra. A portare il tricolore sulla pista dell’Olimpic
Stadium è stata Oscar De Pellegrin, bellunese, campione di tiro con l’arco.
E’ alla sua sesta Paralimpiade, nel suo palma res un oro e 4 bronzi. Sposato da 25
anni con Edda, nello sport ha trovato il suo riscatto dopo un grave incidente sul
lavoro che lo ha costretto su una sedia a rotelle. Benedetta Capelli lo ha
intervistato:
R. - Questa
è la mia ultima paralimpiade ed il mio ultimo impegno da atleta. Essere qui a Londra
è una bella scommessa.
D. - A Londra sarai il porta bandiera dell’Italia..
R.
- Questa è una cosa fantastica, ed io non smetterò mai di ringraziare il mio presidente
ed amico, Luca Pancalli, e tutta la Giunta. Lo vedo come il coronamento di una vita
dedicata allo sport, un momento di orgoglio e di onore. Credo che il ruolo implichi
pure l’impegno a trasmettere dei valori e a promuovere lo sport tra le persone disabili.
Questo credo sia fondamentalmente il portabandiera.
D. - E tra l’altro, possiamo
dire, che il tuo cerchio magico si chiude da dove avevi iniziato, proprio da Londra.
R.
- Anche questo è bellissimo, perché tutto coincide: la mia carriera internazionale
è iniziata da Londra nel 1990 e la finirò a Londra nel 2012, 22 anni dopo. È una cosa
fantastica. L’unica cosa che posso dire agli sportivi, non solo disabili, ma in generale,
è che questa mia longevità è data dal fatto che mi diverto tantissimo. Credo che questo
sia ciò che dobbiamo tramandare ai nostri giovani: praticare, però divertendosi.
D.
- Visto che siamo alla vigilia della chiusura di un’esperienza, che bilancio si può
fare della tua carriera e anche della tua vita di atleta?
R. - Posso solo dire
di essere stato un ragazzo fortunato, perché dopo l’incidente, non è stato facile
decidere di continuare a vivere, trovare nuovi stimoli e un nuovo modo di esprimermi.
Devo ringraziare lo sport. È stato un modo di scoprire le mie abilità, un modo per
riappropriarmi della vita e avere un confronto con l’avversario. Non ti nascondo che
è veramente come rinascere. Non hai più nessuna sicurezza, non sai più cosa puoi fare
nella vita, e -come ho detto prima- è proprio come nascere nuovamente. Lo sport ti
dà questi stimoli che ti servono per oltrepassare questa barriera e non abbatterti.
D. - Dell’altra vita ti porti anche un grande amore che è stato accanto a
te per tanto tempo, e continua ed esserci…
R. - Sicuramente. È l’anello di
congiunzione tra le due vite, ed in positivo, perché poter condividere questi momenti
di sconforto, quando non vedi più niente, con una persona che ti sta vicino, che ti
stimola e che cerca in tutti i modi insieme a te di trovare una nuova via per ritornare
a vivere, è una cosa fondamentale. Credo veramente che questo sia amore vero.
D.
- Che cosa siete oggi alla luce dell’esperienza che avete vissuto?
R. - Oggi
siamo più di allora. Aver superato questo enorme ostacolo insieme, avendo ben davanti
i valori che ci univano, aver avuto la consapevolezza poi di formare una nuova vita
insieme, avendo il desiderio e la forza di adottare un bambino, che poi abbiamo scoperto
avere dei problemi, tutto questo, senza un’unione del genere, un’intesa tale, e senza
una condivisione profonda come è nel nostro rapporto forse non si riuscirebbe a mantenere
sempre questo sorriso, questa voglia di vivere e di andare avanti.
D. - In
qualche modo la fede è stata un aiuto per voi, oppure non è entrata nella vostra storia?
R.
- Io sono sempre stato un credente, però finché la vita va bene non hai problemi,
ha venti anni, hai tutta la vita davanti a te, non ci pensi, o comunque rimane un
pensiero marginale. Nel mio incidente e nei mesi successivi, ho rafforzato questa
mia parte religiosa, con una forza che mi ha dato sicuramente anche un forte sostegno,
e lo sto ancora portando avanti oggi. Quindi nel male è stata una bella scoperta.
D.
- Quanto è importante quell’uscire di casa che a te è stato utile, grazie ad un’amicizia,
per vincere poi i pregiudizi di tante persone ..
R. - Sicuramente. Quello è
il primo passo fondamentale: accettare la propria condizione dopo un incidente. Noi
rimaniamo le persone di prima, magari l’aspetto esteriore è diverso -ci muoviamo su
quattro ruote non su due gambe-, però le qualità che avevi prima, le hai anche adesso
e soprattutto riesci ad esprimerle meglio, perché dopo un incontro del genere con
il destino, come lo chiamo io, ti rafforzi molto e riesci a trasmettere molto di più
agli altri.
BEATRICE VIO: tedofora per Londra 2012, atleta per Rio 2016
A
Londra è stata forte l'esperienza per Beatrice Vio, 15 anni, schermitrice in
erba. Non prenderà parte alle gare ma una sottoscrizione nata sul web le ha permesso
di essere una tedofora. Nella strade della capitale britannica, Beatrice ha portato
la fiaccola olimpica ma è alle Paralimpiadi pure come conduttrice di un programma
per Sky. A segnare la sua vita una meningite fulminante che l’ha colpita a 11 anni
e che l’ha fiaccata nel fisico ma non nella determinazione a diventare la nuova Valentina
Vezzali, sua grande amica. Benedetta Capelli l’ha raggiunta a Londra e le ha
chiesto se si stava divertendo:
R. – Tanto,
perché non immaginavo che qui fosse così grande e così bello. Tutti mi avevano raccontato
cose bellissime, ma non me l’aspettavo così. Per cui, tanto.
D. – Sei contenta
che le persone si siano mobilitate tanto, perché ci fossi in questa edizione, pur
non essendo un’atleta paralimpica?
R. – Sì, non come atleta, ma la mia parte
la faccio.
D. – Tra l’altro, farai la tua parte anche come giornalista, diciamo
così...
R. – Sì, ho già iniziato.
D. – Di cosa ti occupi esattamente?
R.
– Faccio delle piccole interviste, delle piccole cose ogni giorno per Sky.
D.
– Ti stai divertendo?
R. – Oggi ne ho fatta una e sì, mi sto divertendo. Devo
ancora prenderci la mano, perché non sono tanto brava, ma ci riesco. Oggi abbiamo
fatto una presentazione iniziale per raccontare quello che faremo in questi giorni.
D.
– Tu sei comunque una schermitrice, che cosa hai provato quando, per esempio, alle
Olimpiadi di Londra hai visto sul podio tre atlete italiane, tre schermitrici una
tra l’altro la conosci bene? Che cosa hai provato, che cosa hai sentito?
R.
– In realtà ne conosco due: la Vezzali e bene la Di Francisco. Conosco poi solo di
vista la Errigo. Si sapeva comunque che loro tre sarebbero arrivate sul podio.
D.
– Hai pensato che prima o poi succederà pure a te?
R. – No, in realtà no, perché
ero troppo emozionata a guardare loro.
D. – Per te si aprono le porte però
di Rio 2016. Ci pensi a questo appuntamento?
R. – Sì, perché stando qua e assistendo
a tutto questo è davvero bello, figurati poi a Rio.
D. – Tu hai l’Associazione
Art4sport e te ne occupi di insieme a Oscar Pistorius. L’hai incontrato a Londra?
R.
– No, perché qua, al campo, sono arrivata oggi. In questi giorni comunque lo vedrò.
E’ simpatico, semplice... Non ci parlo molto in realtà, perché io non so bene l’inglese
e lui non sa quasi niente di italiano.
D. – L’hai seguito alle Olimpiadi di
Londra? Ti sei emozionata per lui?
R. – Sì, mi è dispiaciuto per le gare che
ha fatto, ma è stato bravo anche solo nell’arrivare in finale nella singola.
D.
– Parlando dello sport, tu dici: “Il mio obiettivo è comunque divertirmi, al di là
dei risultati che posso ottenere”...
R. – Quello che faccio, lo faccio per
divertirmi. Se fai lo sport, lo fai soprattutto per divertirti, ma se riesci bene
alla fine punti anche a vincere.
D. – Cosa ti ha dato nella tua vita lo sport,
che cosa ha rappresentato?
R. – Un po’ tutto, perché mi ha aiutato ad uscire
dall’ospedale e così via. Anche oggi quando sono nervosa, tirando mi tranquillizzo
tantissimo.
D. – Tra l’altro leggevo che tu hai detto che ti piace molto di
più tirare di scherma adesso che prima, quando lo facevi da piccola, perché ci vuole
più coraggio, non devi avere paura...
R. – Sì, esatto, perché sei fermo su
una carrozzina e quindi puoi solo attaccare e non indietreggiare o fare altro.
D.
– Quindi, ti senti più coraggiosa?
R. – Sì, ti passano tutte le paure e tutti
i pensieri: vai, attacchi e sei a posto.
IMMACOLATA CERASUOLO: mamma
campionessa di nuoto
Londra è l’occasione per la nuotatrice Immacolata
Cerasuolo per tornare alla ribalta. La sua è una storia di riscatto dopo l’incidente
sul motorino, avvenuto in giovane età, e che le è costato l’uso del braccio destro.
A 26 anni, due figli dopo le Paralimpiadi di Pechino e l’oro di Atene, Immacolata
arriva a questo appuntamento con una grande serenità come conferma al microfono di
Benedetta Capelli che l'ha raggiunta il giorno prima delle qualifiche:
R. – Arrivo
da mamma, come una delle più anziane del gruppo del nuoto, però arrivo carica e volendo
far bene. Domani vedremo sul blocco di partenza quale sarà il risultato. Sicuramente
c’è la voglia di far bene e di esserci in modo positivo.
D. – Due bambini
in due anni...
R. – Veramente due bambini in tre anni. Ho fatto giusto il quadriennio
olimpico. Ho fatto Pechino, poi sono tornata a casa incinta di Silvia e dopo 18 mesi
è arrivato Giovanni e vedranno la mamma partecipare alla sua terza Paralimpiade.
D.
– Da mamma e in più da atleta, da sportiva, da campionessa, quanta responsabilità
senti oggi in più?
R. – Io sono tranquilla, sono consapevole di avere fatto
un percorso buono, pulito, di aver fatto formato prima la mia famiglia, che penso
sia la medaglia più bella che abbia mai potuto conquistare. Oggi, con Londra 2012,
con lo stesso logo delle Olimpiadi, sicuramente si accende una nuova luce verso le
Paralimpiadi-Olimpiadi.
D. – “Olimpiadi quotidiane”, invece, è il titolo di
un libro, che tu hai scritto insieme ad un tuo amico...
R. – Sì, Gianluca Attanasio.
Un amico di squadra. Abbiamo fatto questo libro “Olimpiadi Quotidiane” per scrivere
la nostra storia. La mia, quella natatoria, di atleta che cade ma si rialza con la
voglia di uscirne bene, e lui con le battaglie che ogni giorno portiamo avanti per
le pari opportunità per noi disabili. Spesso ci dimenticano, ci mettono nell’angolo
o ci usano solo quando fa comodo. Quindi, è un modo come un altro per fare vedere
che esiste un’altra vita al di là della disabilità, che il disabile non è solo colui
che fa compassione – è brutto dirlo – ma è una persona che ha voglia, grinta e a volte
riesce a fare quello che i “normo” non riescono a fare.
D. – Immacolata, quando
tu ripensi all’incidente che ti ha cambiato la vita, cosa pensi oggi a distanza di
tanto tempo?
R. – Io ho sempre pensato che rifarei mille volte l’incidente
per avere la vita che ho oggi, non perché ho avuto la medaglia olimpica, la medaglia
d’oro, d’argento – non è quello che mi ha cambiato la vita – ma per avere a fianco
la persona che ho sposato, Bruno, e per aver messo al mondo dei bimbi che sono i due
gioielli più importanti del mondo.
D. – Allora, invece, cosa pensavi? Pensavi
davvero che la tua vita fosse ad un bivio, fosse finita oppure che invece potesse
essere...
R. – No, non l’ho mai pensato, perché sono sempre stata positiva
nelle cose. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di positivo. Ho perso papà tre
anni fa e il suo sogno era che io facessi Londra e anche da questo ho tratto la grinta
per arrivare qui. Quindi, sono tante le motivazioni per cui oggi sono qui a Londra
ad accendere la fiamma olimpica: l’accenderò per me e per chi non c’è.
D. –
Che cosa ha dato lo sport alla tua vita e che cosa hai dato, hai regalato invece allo
sport italiano?
R. – Beh, io dallo sport ho avuto la grinta che ho, la grinta
che mi ha fatto rialzare dopo l’incidente. Questo lo devo solamente allo sport, al
di là dei miei genitori, che sono stati delle ottime guide. Ho fatto una gara tra
me e l’incidente e ho vinto io. Cosa ho dato allo sport? La possibilità di iniziare
a camminare insieme. Stiamo creando una famiglia. Abbiamo iniziato con Atene 2004
stiamo crescendo e penso di aver dato e che continuerò a dare tanto allo sport paralimpico.
D.
– Se tu dovessi in conclusione dire qual è la tua forza, cosa fa la differenza in
Immacolata Cerasuolo?
R. – Io l’ho scritto anche sul libro, non a caso. Sulla
prima pagina ho scritto: “Non è mai finita fin quando non tocchi”. La vita è come
una gara: finché abbiamo la possibilità di alzarci la mattina, di vedere il sole,
dobbiamo combattere per riuscire a vederlo anche il giorno dopo. Andare avanti, dunque,
e vedere quanto è bello il sole quando riscalda, com’è bello il profumo del mare e
tutto quello che la vita ti dà.
ANDREA MACRI': una medaglia per
il compagno di scuola perso
Solo il giorno prima della fine delle Paralimpiadi
scenderà in pedana lo schermitore Andrea Macrì, torinese di 19 anni, scampato
nel 2008 al crollo del soffitto della sua scuola, il Liceo di Rivoli. In quella tragedia
perse la vita il suo compagno Vito Scafidi e a lui – ha dichiarato Andrea – dedicherà
un’eventuale medaglia. Benedetta Capelli lo ha intervistato il giorno dopo
l’inizio delle Paralimpiadi:
R. – Partecipare
alla cerimonia è stata una delle soddisfazioni più grandi della mia vita. È stata
una cosa bellissima, però penso che tutto quello che deve venire sarà ancora più bello.
D.
– C’è un po’ l’incoscienza del “debuttante” in te?
R. – Non lo so ancora, dopo
la gara lo saprò dire.
D. – Qualche anno fa, forse, un’esperienza del genere
nemmeno la sognavi. Amavi in passato lo sport o lo hai scoperto dopo l’incidente?
R.
– L’ho scoperto dopo l’incidente, l’ho scoperto in ospedale quando ero ricoverato
ed ho fatto una bella scoperta, perché comunque in pochi anni arrivare fin qui vuol
dire che c’era già qualcosa dentro me che aspettava solo di venir fuori.
D.
– Non sei stato subito uno schermitore, hai provato anche altri sport, vero?
R.
– Il primo che ho provato è stata proprio la scherma, poi ho provato anche tantissimi
altri sport, tra cui l’hockey - che d’inverno ancora pratico – però la scherma è stato
il mio primo amore.
D. – Se dovesse arrivare una medaglia, a chi la dedicherai?
R.
– Sicuramente a chi non c’è più.
D. – Quindi al tuo amico Vito…
R. –
Esatto…
D. – Quel 22 novembre 2008 ha cambiato profondamente la tua vita. Oggi
a distanza di qualche anno se ripensi a quel momento, qual è il primo pensiero?
R
. – Sono tanti, sempre i soliti, non lo saprei dire. È collegato a tutto quello che
faccio adesso, se ripenso ad allora ricollego tutto e penso a dove sono arrivato,
nonostante quello che è successo. Penso dove posso ancora arrivare e a quante cose
ancora posso fare e ho la fortuna di poter fare.
D. – Hai scoperto, dicevi,
lo sport: c’è un’altra parte di te che hai scoperto dopo quel momento?
R. –
No, nessuna parte in particolare. Sono tante le cose nuove: il piacere di viaggiare,
il piacere di stare insieme alle persone - che è una cosa “normale” quando si viaggia
tanto e sei costantemente in mezzo a tante persone di nazioni diverse – queste sono
le novità più grandi, io sono sempre il solito Andrea.
D. – Sentendo tanti
atleti paralimpici, un cosa emerge molto forte: parlano di questo “prima” e di questo
“dopo” l’evento traumatico che hanno subito; una nuova vita. Anche per te è così?
R.
– Penso che la vita sia formata da quelle persone importanti. Finché hai a fianco
la famiglia, gli amici e le persone care, la vita è sempre quella. Cambia ma non è
che ce n’è una nuova, si modifica ma penso che sia sempre la stessa.
D. – C’è
qualcuno a cui vuoi dire grazie, perché sei arrivato a questo traguardo – Londra 2012?
R.
– Sicuramente la mia famiglia. Mia madre, mio padre e mio fratello, perché mi sono
stati tantissimo vicino e senza loro non sarei mai e poi mai riuscito ad arrivare
fin qui e ad affrontare tutti i sacrifici che fin’ora ho affrontato.
PER
VEDERE TUTTI GLI EVENTI E I RISULTATI http://www.london2012.com/paralympics/schedule-and-results/