Violenza e porto d’armi: gli Usa s’interrogano dopo l’ennesima strage
Tre persone sono morte lunedì scorso in una sparatoria a College Station, una cittadina
universitaria del Texas. All’origine della strage, la notifica di uno sfratto da parte
della polizia. La sanguinosa sparatoria è avvenuta a pochi giorni da due massacri
che hanno scosso l’America: quella al cinema di Denver in Colorado e quella al tempio
sikh nel Wisconsin. Eventi che ripropongono il dibattito negli Usa su violenza e diritto
al porto d’armi. Alessandro Gisotti ne ha parlato con Paolo Mastrolilli,
inviato de “La Stampa” a New York:
R. – Il dibattito
sul tema c’è, però purtroppo non fa grandi passi avanti. La reazione è quasi una reazione
di assuefazione. Ormai questi episodi si ripetono a intervalli sostanzialmente regolari.
Comincia un dibattito sulle cause sociali, psichiche, di questi eventi. Dopodiché
il dibattito si assopisce e in sostanza non si fa nulla di concreto per affrontare
i problemi fondamentali che sono alla radice di questo fenomeno che sta diventando
una emergenza nazionale.
D. – Al fondo c’è che il secondo emendamento della
Costituzione, che consacra il diritto al porto d’armi, è considerato inviolabile da
tutti, politicamente…
R. - Questo secondo emendamento della Costituzione è
un residuo del passato, è una regola che è stata scritta due secoli fa quando si viveva
in un’altra situazione, in un’altra America. Il Paese era stato appena unito da una
rivoluzione e aveva visto l’impegno diretto in battaglia dei cittadini e quindi c’era
una necessità di avere milizie armate fra i civili. Tutto quanto questo negli Stati
Uniti non esiste più, non ha più senso. L’unica cosa che esiste è una forte lobby
dei produttori di armi che ha interesse a continuare a vendere armi e a fare affari.
Questa lobby è molto forte, è molto radicata in molti Stati americani, condiziona
la politica sia con i finanziamenti che dà, sia con i voti che controlla e in sostanza
i politici hanno paura di irritarla. Quindi il dibattito resta fermo e non si prendono
iniziative.
D. - Tuttavia i sondaggi dicono che una parte importante di americani
non vuole rinunciare a questo che ritiene un diritto…
R. – Sì, certamente,
la maggioranza degli americani non vuole rinunciare a questo diritto. C’è stata una
significativa diminuzione del sostegno per la vendita delle armi, dopo le grandi stragi
che c’erano state negli anni scorsi, quella di Columbine in Colorado, quella di Virginia
Tech… Dopodiché con il tempo, e con il lavoro della lobby delle armi, questa posizione
è cambiata e adesso, negli ultimi anni, c’è stato di nuovo un incremento delle persone
che sono a favore delle armi e quindi la maggioranza degli americani, un po’ più del
50 per cento, non vuole nuove regole. Questo perché ritengono che il diritto di possedere
armi sia una dimostrazione della libertà che negli Stati Uniti è assicurata a tutti
quanti i cittadini.
D. – Dopo la strage al cinema di Denver, Obama ha detto:
“i kalashnikov dovrebbero finire nelle mani dei soldati, non dei criminali”. Ma è
solo retorica o forse c’è qualche possibilità?
R. – Ci sarebbero due cose che
sicuramente si possono fare. Innanzitutto come ha detto il presidente Obama le armi
da guerra veramente non hanno senso. Si può capire che per difesa personale una persona
acquisti una pistola, ma non si capisce per quale motivo acquisti un fucile e un mitragliatore
da guerra. Già si potrebbe cominciare col vietare queste armi che non hanno proprio
posto in una società civile. L’altra questione è a chi vendere queste armi e quindi
le leggi sui controlli. Quest’ultimo episodio del Texas riguarda una persona che secondo
la madre aveva problemi psichici, un uomo che su facebook aveva scritto che era un
fan delle armi: perché nessuno ha fatto controlli su questa persona e non è arrivata
a capire che una persona del genere forse non doveva avere per le mani armi e per
di più armi da guerra?