Olimpiadi. Il cappellano degli azzurri, mons. Lusek: io, "parroco" dei campioni
Saranno i tornei di calcio femminile e maschile, oggi e domani, ad “anticipare” l’inaugurazione
dei Giochi della 30.ma Olimpiade di Londra, in programma dopodomani sera. Mentre cresce
nel mondo l’attesa e l’emozione del pubblico per questo evento di sport globale, aumenta
la tensione pre-gara degli atleti nel villaggio olimpico. Un luogo dove alloggerà
anche IL direttore dell'Ufficio Cei per la pastorale dello sport, turismo e tempo
libero, mons. Mario Lusek, cappellano degli atleti azzurri. Fabio
Colagrande gli ha chiesto quale sarà il suo ruolo durante le due settimane di
gare:
R. - Io vivo
all’interno del villaggio olimpico, nello stesso edificio dove vivono gli atleti e
i dirigenti. E’ una particolare forma di presenza e questo grazie al Coni - il Comitato
olimpico nazionale italiano - che ha trovato anche le forme giuridiche per essere
presenti all’interno di questo spazio. Amo considerare lo spazio olimpico come una
specie di oratorio, o addirittura come una parrocchia, nel quale le persone avvertono
questa presenza, sanno che esiste, non sono indifferenti ad essa, anzi è una presenza
molto apprezzata e diventa veramente uno spazio, un luogo di relazioni amicali. All’interno
di questo spazio, faccio il prete e quello che un normale prete fa in oratorio, o
in una parrocchia: non mancano i momenti di culto, ci si incarna poi anche nella vita
del villaggio olimpico. Un prete vive le stesse tensioni, le stesse emozioni, gli
stessi interessi che si vivono all’interno del villaggio olimpico: si esalta, si appassiona
e rimane deluso qualche volta. Cerca di essere prossimo, amico e di manifestare simpatia
e attenzione, di consolare quando è necessario, ma soprattutto di esultare.
D.
- Gli atleti si rivolgono al cappellano con quali richieste?
R. - Sono diverse:
la prima è una richiesta di dialogo di amicizia, di presenza. Ci incontriamo nei luoghi
più impensati: ascensore, mensa, durante il tempo libero serale, anche negli stadi
- perché vado a seguire le varie competizioni - e poi nei momenti ufficiali, liturgici,
che incastoniamo all’interno di un orario molto stressante. Di tempo libero ce n’è
veramente poco, cerchiamo quindi di incastrare anche alcuni momenti d’incontro. Quest’anno,
c’è una particolarità per il contingente italiano a Londra: grazie anche al Coni,
abbiamo cercato di legarci alla parrocchia degli italiani a Londra - la parrocchia
di San Peter - in pieno centro e durante l’evento olimpico quello spazio sarà frequentato
anche dagli atleti per momenti di testimonianza e di incontro con quella realtà. Questo
è un allargamento di orizzonte e soprattutto di identità, quasi di appartenenza, per
far sperimentare anche ai tanti italiani che vivono a Londra questo entusiasmo per
la nostra nazione e per i nostri atleti.
D. - Si dice sempre che lo sport è
anche luogo di valori. Vivendo dietro le quinte di un Olimpiade si ha conferma di
questo? Si vivono esperienze, dal punto di vista umano psicologico, molto forti immagino…
R.
- Sicuramente sì. Spesso noi dimentichiamo che chi partecipa alle Olimpiadi - a parte
chi è già veterano per esperienza - è un giovane come tanti altri dei nostri. Vivono
le tensioni della condizione giovanile, ma nello stesso tempo arrivano preparati con
un bagaglio di impegno, io direi quasi di ascesi - l’allenamento è una forma di ascesi
laica - che impegna il soggetto in una preparazione fatta di sacrificio e anche di
ansie e preoccupazioni. Questo forse lo dimentichiamo, non percepiamo che hanno bisogno
di essere accompagnati e sostenuti anche in una dimensione interiore, perché la vita
interiore dà sostegno anche allo sforzo fisico, allo sforzo mentale e alla sfida che
questi ragazzi sono chiamati ad affrontare. La prima sfida ce l’hanno proprio con
se stessi, con le proprie tensioni, con le proprie contraddizioni interne.
D.
- Una provocazione: non c’è il rischio di diventare una sorta di psicologo, invece
che un sacerdote?
R. - Questo è uno dei rischi e se anche qualcuno si vuole
considerare tale, io mi sforzo di evitare questa dimensione cercando un approccio
diverso con le persone. Un approccio in cui faccio prendere consapevolezza della propria
dignità di persona, di uomo, di ragazzo, di giovane e soprattutto a che cosa è chiamato.
E’ chiamato a delle sfide, è chiamato forse a vincere: nessuno di noi è chiamato ad
essere un perdente, ma magari a percepire la sconfitta come un ricominciare da capo,
un riprendere in mano la propria vita, a non arrendersi e andare oltre. In questo
senso, lo sport diventa anche luogo di valori, perché ha una consonanza ed una vicinanza
anche con la metafora spirituale, dell’agonismo spirituale. La nostra spiritualità
è una continua lotta nella ricerca di Dio, nell’incontro con Lui, nel percepirlo come
Padre, cercando di lottare contro le tentazioni che accompagnano anche la nostra vita
quotidiana.