Un messaggio di riscatto: così don Cesare Rattoballi a 20 anni dalla morte del giudice
Borsellino
"Si lavori senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie
che hanno inquinato la ricostruzione della strage di via D'Amelio". Così il presidente
della Repubblica Napolitano in occasione del ventennale dell’uccisione del giudice
Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta. Questo pomeriggio in via d’Amelio le
testimonianze dei familiari delle vittime e di alcuni magistrati. “C’è ancora troppo
buio nella stanza della verità – ha detto Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di
Palermo. Alessandra Zaffiro:
“Paolo
lo hanno fatto a pezzi - ha detto Salvatore Borsellino, fratello del giudice - perché
si è opposto alla scellerata trattativa tra la mafia e pezzi dello Stato. Oggi alti
livelli delle istituzioni pongono ostacoli che ritardano l’accertamento della verità.
Noi non vogliamo altri morti, siamo qui per sostenere i giudici vivi, quegli stessi
che stanno lottando per l’affermazione della verità”. In via D’Amelio anche Roberto
Scarpinato, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta, ha letto
una lettera dedicata al giudice ucciso: “Occorre lavorare perché lo Stato diventi
più credibile. Più trascorrono gli anni, più è imbarazzante partecipare a queste commemorazioni.
Stringe il cuore – sostiene Scarpinato - a vedere persone, le cui vite emanano quel
puzzo di compromesso morale che tu, Paolo, tanto aborrivi. Se fosse possibile verrebbe
da chiedere a queste persone di farci la grazia di stare a casa il 19 luglio, di tacere,
perché le loro parole sanno di una retorica stantia e sono gusci vuoti”. Alle 16.58,
esattamente 20 anni dopo il boato dell’esplosivo che uccise Paolo Borsellino e gli
agenti della polizia di Stato Emanuela Loi, Agostino Catalano,Walter Cosina, Vincenzo
Li Muli e Claudio Traina, in via D’Amelio è piombato il silenzio.
A Palermo
un lungo corteo dell’Agesci ha attraversato la città, concludendo il percorso nella
Chiesa di San Domenico, dove era presente la famiglia di Borsellino. Anima dell’iniziativa
don Cesare Rattoballi, molto vicino al giudice nell’ultimo periodo della sua
vita. Benedetta Capelli gli ha chiesto quale sia oggi l’eredità lasciata dal
magistrato anti-mafia:
R. – Lui
ha lasciato un patrimonio immenso, perché era una persona molto retta. La sua serenità
di fondo era supportata certamente da un dialogo interiore, che era un dialogo con
Dio, da dove, secondo me, traeva tranquillamente questa serenità. Nell’ambito familiare
respirava un certo clima di pienezza e questo lo portava dentro di sé e lo viveva
veramente. Quando lui incontrava gli altri, infatti, aveva un grande rispetto per
loro. Ogni domenica andava a Messa e questo l’ho saputo anche dagli uomini della scorta.
Altra cosa, il fatto che lui sapesse che era arrivato il tritolo per lui e si preparava,
preparando il distacco dalla famiglia, preparando il distacco dagli altri, il mettere
a posto tutte le cose. Mi chiese pure di essere confessato, proprio perché non sapeva
quale sarebbe stato il giorno, quale sarebbe stato il momento. “Io mi preparo, perché
così sono tranquillo, sereno nel mio cuore e ho tutto a posto”.
D. – Lei era
accanto a Rosaria Schifani i giorni dei funerali delle vittime della strage di Capaci...
R.
– Mia mamma è la sorella della mamma di Vito Schifani, una delle guardie del corpo
morto nell’attentato a Falcone. Lì abbiamo voluto fare quell’appello alla conversione.
“Non vi siete comportati bene, ma noi vi diamo una condizione, vi diamo la possibilità
di chiedere perdono”. Questo fatto toccò ulteriormente Paolo, il quale disse a me
e a mia cugina di continuare a sollecitare le coscienze. Se una coscienza è risvegliata,
è scossa, potrebbe indurre i mafiosi veramente a collaborare. Questa era una sua idea.
D.
– Come visse Borsellino quei 57 giorni, prima della sua morte e a distanza di tale
tempo dall’uccisione del suo grande amico, Falcone...
R. – Aveva una grande
riconoscenza. Lui, in un primo tempo, ebbe questa consapevolezza: che doveva testimoniare
l’operato di Giovanni, lo doveva custodire e diffonderlo, farlo conoscere e far conoscere
anche l’uomo Giovanni Falcone. Da quel cercare di parlare dell’amico, Paolo non faceva
altro che parlare anche di se stesso. Gli ultimi tempi, però, quando si comprese che
Paolo era sotto tiro, si incominciò a preparare cristianamente. C’era un travaglio
enorme nel suo cuore, fatto con delicatezza, fatto con serenità, fatto con un prepararsi
interiore, fatto in questo modo.
D. – Qual è un ricordo che lei sente particolarmente
vicino, particolarmente forte?
R. – Gli occhi e il sorriso di Paolo, che erano
la conferma della sua vicinanza: un sorriso di accoglienza. Oggi, penso, che mi sostenga
anche in questo mio ministero. Sono sostenuto dall’esempio di Paolo, da questa dedizione
per lo Stato, da questa dedizione per la verità, da questa dedizione per la giustizia.
Tutto questo è quello che mi ha lasciato Paolo, è quello che io ricordo ed è quello
che rimane impresso nel mio cuore, nella mia mente, nella mia vita.
D. – Dall’appello
alla conversione di Rosaria Schifani, oggi la Sicilia com’è cambiata e come ricorda,
secondo lei, Paolo Borsellino? Quale eredità ha lasciato questo magistrato alla sua
terra?
R. – Paolo Borsellino ha lasciato alla sua terra un’immagine di legalità,
una grande immagine di trasparenza e una grande immagine di riscatto. Io penso che
noi dobbiamo tanto a Paolo, perché lui, dando la sua vita, ci ha illuminati con una
luce unica su questi fatti e noi non possiamo accettarli più. Ecco perché Palermo
è da tanto tempo che fa un lavorio continuo. Il problema è che questo discorso della
mafia risale a qualche secolo fa e bisogna scrollarselo di dosso e scrollarselo di
dosso significa lavorare moltissimo. Credo che Paolo abbia dato una grande sferzata
insieme a Giovanni Falcone e agli uomini della scorta.