Allarme Fmi: l’Europa epicentro della crisi, a rischio la ripresa
La crisi economica non allenta la sua morsa e a pagare il prezzo più alto è l’Europa.
L’allarme sulla crescita, lanciato dal Fondo monetario internazionale (Fmi), identifica
il Vecchio continente come epicentro della tempesta finanziaria. Eppure, tutto era
iniziato negli Stati Uniti, con un effetto contagio allargato al vecchio continente.
A detta degli analisti, ora gli Usa stanno uscendo dal tunnel, l’Europa no. Ma allora
il problema è davvero la moneta unica? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Ugo
Bertone, direttore di “Finanza e Mercati”:
R. - Di fronte
ad una crisi partita dagli Stati Uniti, ma che ha investito l’intero mondo, tutti
hanno reagito con una manovra di stampo keynesiano, aumentando l’offerta di moneta.
Tutti ad eccezione di uno: l’Europa. L’Europa ha scelto la strada dell’austerità,
che in parte era imposta dalla necessità di far convivere 17 Paesi con una sola moneta
e 17 situazioni diverse. E con la crisi questa barca sta rischiando di imbarcare parecchia
acqua. In questo momento, l’Europa è l’epicentro della crisi finanziaria mondiale.
D.
- Dal Fondo monetario internazionale si sottolinea anche che il livello degli spread
è immotivato sia per la Spagna e per l’Italia. Ad esempio, questo differenziale dovrebbe
essere inferiore di almeno 200 punti. Ma allora che cosa è successo?
R. - È
successo semplicemente che, a partire dalla decisione dell’Europa di non restituire
l’intero debito greco se non alla Bce, ma di far pagare ai creditori uno sconto, i
mercati si fidano sempre meno dell’Europa, che guardano con la lente di ingrandimento.
Un Paese come l’Italia, ad esempio, che ha accumulato un alto debito pubblico, viene
visto come un debitore a rischio e gli fanno pagare un prezzo supplementare. In più,
questo atteggiamento è procifico, nel senso che “guaio chiama guaio”. L’Italia è in
queste condizioni, ma a partire da un anno a questa parte gli investitori stranieri
hanno ritirato e continuano a ritirare e a non rinnovare i loro titoli di Stato sull’Italia
e sulla Spagna: cosa che aggrava la situazione, anche se - come detto dal Fondo monetario
- le terapie di impatto dei due Paesi sono corrette.
D. - Il fatto che Moody’s
abbia abbassato il rating di dieci banche italiane, ma anche di numerosi enti pubblici:
che ricadute avrà sulla vita reale?
R. - Questa è una cosa scontata una volta
che viene ridotto il rating in un Paese. Semmai, c’è da chiedersi che valore possano
avere ancora queste indicazioni e questi giudizi delle agenzie di rating, che cadono
dopo che si sono verificati i problemi e sono assolutamente procifici. In questo momento,
Moody’s piuttosto che Standard and Poor’s, si limitano a fotografare la situazione
esistente e così, a peggiorarla. Inoltre, senza cercare alcun confronto, alcuna volontà
di capire cosa sta succedendo. Più che gridare al complotto, bisognerebbe a questo
punto chiedere alle agenzie di rivelare come nascono i loro giudizi, come vengono
formulati e con quali votazioni.
D. - È ancora il caso di usare la parola “crisi”
o sarebbe più opportuno parlare di situazione critica strutturale in Europa?
R.
- Io la cancellerei la parola “crisi”. Diciamo che viviamo in un nuovo paradigma.
Diciamo che il mondo, rispetto al 2007, è sceso di un paio di gradini e deve abituarsi
a vivere la nuova situazione cercando semmai di risalire. Ma di risalire, partendo
da una base più bassa. Non è più una crisi: è una condizione strutturale in cui qualcuno
è più ricco, ma ahimé, alcuni altri, come noi, sono più poveri.