Afghanistan. Karzai ai talebani: basta lotta armata, siate un partito politico
In Afghanistan, nella provincia orientale di Lahman, è stata uccisa oggi dell’esplosione
di una bomba Hanifa Sapi, responsabile del Dipartimento per gli Affari femminili.
Nell'attentato, non ancora rivendicato, è morto anche il marito mentre due dei suoi
figli sono rimasti feriti. Intanto il presidente Karzai tenta ancora, per l’ultima
volta, di riportare i ribelli talebani nell’ambito del confronto politico, chiedendo
loro di partecipare al processo di ricostruzione del Paese e a sedersi al tavolo delle
trattative. Karzai ha quindi esortato la loro guida spirituale, il Mullah Omar, a
lasciare la lotta armata e a costituire una forza politica ufficiale, candidandosi
alle prossime presidenziali. Sui motivi di questa proposta di Kabul, Giancarlo
La Vella ha intervistato Paolo Branca, docente di Storia dei Paesi islamici
all’Università Cattolica di Milano:
R. - Io penso
ci sia una tendenza generalizzata, dopo le "primavere arabe", a sdoganare i movimenti
fondamentalisti islamici, che sono stati a lungo nella clandestinità. La speranza
è che, partecipando al “gioco democratico”, smorzino gli aspetti più estremi della
loro mobilitazione - anche armata - dei decenni scorsi e accettino di confrontarsi
con le altre forze politiche della società in cui si trovano. Certamente, l’Afghanistan
è un caso limite, per cui si pensa ovviamente, data la natura del terreno ed il carattere
tribale del Paese, che questo interlocutore non abbia troppo le carte in regola per
offrire delle garanzie.
D. - Tra l’altro, abbiamo un esempio di Stato gestito
nel passato in Afghanistan dai talebani: è pensabile, guardando alla loro ideologia,
che possano dialogare con altre parti politiche così diverse da loro?
R. -
Non è impossibile. Ricordiamo che il governo dei talebani era stato riconosciuto soltanto
dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi, quindi dei grandi amici dell’Occidente
che erano stati "sponsor" di questo sciagurato esperimento. Adesso, dopo che, per
un certo aspetto, la situazione si è tranquillizzata, il fatto che la parte più moderata
di questo movimento possa essere coinvolta in un discorso di unità nazionale, per
il benessere e lo sviluppo della nazione può essere positivo dopo tutti questi anni
di scontri. Bisogna vedere come questo processo sarà gestito e soprattutto quali risultati
porterà.
D. - Il governo Karzai ha riscosso diverse critiche, sinora. Quali
possono essere gli obiettivi in questo momento del capo di Stato, da un parte, e dei
ribelli dall’altra?
R. - Da parte del capo dello Stato, penso che sia sempre
il solito problema: l’Afghanistan è un Paese poco governabile, soprattutto da parte
di un’autorità centralizzata. Entrare quindi in colloquio con gli altri vuol dire,
comunque, farsi riconoscere come interlocutore e di questo il governo di Kabul ha
estremo bisogno, perché ci sono intere zone del Paese su cui non ha nessun controllo.
Da parte dei ribelli, uscire dalla lotta armata - che ha portato tantissimo dolore
e distruzione nel Paese - forse potrebbe costituire una svolta e anche loro, da qualche
punto di vista, potrebbero essere riconosciuti come interlocutori in un quadro dove
le componenti etniche, religiose, ideologiche sono molto diversificate e dove un minimo
di compromesso è indispensabile per uscire da questo tunnel senza fine.
D.
- Si avvicina la data del ritiro delle truppe internazionali. E’ pensabile che sarà
quello il momento in cui possa iniziare all’interno dell’Afghanistan un vero dialogo?
R.
- No, io penso che sia importante che cominci prima. Una volta ritirate le truppe
internazionali, la tentazione di risolvere le cose con la forza potrebbe risorgere,
mentre questa presenza internazionale - che garantisce un minimo di stabilità - dovrebbe
essere appunto sfruttata per incominciare a fare dei passi verso la distensione, in
modo che poi non sia una strada senza ritorno e non si ripiombi nel caos.