Mons. Padilla: inquietudine per l’avvenire della Chiesa in Mongolia
Si sono conclusi ieri i due giorni di festeggiamenti per il 20.mo anniversario della
presenza della Chiesa cattolica in Mongolia. Ma il bilancio che traccia mons. Wenceslao
Padilla, prefetto apostolico di Ulan Bator, è in chiaroscuro. In una Lettera pastorale
intitolata “Celebrare i 20 anni della presenza cattolica in Mongolia”, mons. Padilla
ricorda la difficile nascita della piccola comunità cattolica nel Paese, avviata nel
1992 per opera di tre missionari della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria:
“Costituita all’inizio da zero fedeli – scrive il presule – oggi essa conta più di
835 fratelli e sorelle nella fede, senza pensare a tutti coloro che si preparano al
battesimo”. Quindi, il prefetto apostolico di Ulan Bator cita i tanti passi avanti
compiuti negli ultimi due decenni: i numerosi centri di accoglienza gestiti dalla
Chiesa e destinati ai bambini di strada, ai giovani, agli anziani e ai disabili; i
tanti centri sanitari per i più poveri; l’impegno dei missionari nel settore dell’istruzione
che ha portato all’apertura di asili, scuole primarie, biblioteche e centri sociali.
Ma tra tante luci, non mancano le ombre: nella sua Lettera pastorale, mons. Padilla
cita, da una parte, la crisi economica che si è riversata sulla società mongola; dall’altra,
la scoperta del potenziale minerario del Paese che ha “profondamente modificato la
vita della popolazione e che avrà gravi conseguenze sulla Chiesa”. Infatti, secondo
mons. Padilla, “l’apparente prosperità nasconde un’inflazione galoppante”, mentre
il governo, “in modo incoerente, distribuisce a ciascun cittadino del denaro e delle
azioni delle società minerarie”. Lo Stato, inoltre, “invece di sviluppare l’economia,
permette alle imprese meno attente alla questione ecologica di saccheggiare le risorse
naturali della Mongolia”. Tutto questo, scrive mons. Padilla, “va a scapito della
Chiesa cattolica che, in quanto organismo non a scopo di lucro, non gode dei benefici
economici promessi ai cittadini”. Essa, infatti, “dipende dai fondi esteri per sopravvivere
e portare avanti il suo servizio alla popolazione; tuttavia, negli ultimi tempi, la
recessione economica e la propaganda governativa sulla nuova prosperità della Mongolia
hanno dissuaso i donatori a contribuire come negli anni precedenti”. “È probabile
quindi – sottolinea il presule – che i missionari dovranno rinunciare a gran parte
dei loro progetti”. Ma i problemi non finiscono qui: come afferma padre Kuafa Hervé,
vicario della Chiesa locale dei Santi Pietro e Paolo, il tono dei rapporti tra la
Chiesa e lo Stato mongolo “non è più molto amichevole”. La rinascita dello sciamanesimo
e una certa diffidenza nei confronti dell’Occidente, al quale è sempre associato il
cristianesimo, infatti, “hanno fatto cambiare l’atteggiamento del governo e di una
gran parte della popolazione”, tanto che ora “non è più permesso evangelizzare all’esterno
delle istituzioni della Chiesa, i minori di 16 anni devono avere l’autorizzazione
scritta dei loro genitori per frequentare il catechismo e i sacerdoti non possono
più portare segni distintivi in pubblico”. Insomma, conclude padre Hervé, si tratta
di “una Chiesa sotto sorveglianza” che, in qualche caso, ha vissuto anche il divieto
di celebrare la Messa in alcune regioni del Paese. Tuttavia, il tono conclusivo della
Lettera di mons. Padilla è pieno di speranza: “Il ruolo della Chiesa resta lo stesso
– afferma il presule – ovvero testimoniare il Vangelo, con i suoi valori, ed insegnare
ad accogliere e sostenere i più poveri”. (A cura di Isabella Piro)