La tragedia dei 54 migranti morti di sete. Mons. Perego: si presidi il Mediterraneo
Sono una cinquantina i migranti sbarcati la notte scorsa nel siracusano. Nelle stesse
ore la Guardia di Finanza intercettava, nelle acque dello Jonio calabrese, un’imbarcazione
a vela con a bordo 25 persone, tra loro diverse donne e bambini, in prevalenza di
origine siriana. Con un secondo sbarco, sempre in Calabria, sono invece arrivati
oltre 70 immigrati di varia nazionalità. La maggior parte di chi sbarca sulle coste
italiane arriva da Eritrea e Somalia, Paesi da dove provenivano le vittime della tragedia
consumatasi in questi giorni nel Mediterraneo e resa nota ieri dall'Alto Commissariato
Onu per i Rifugiati. Il Servizio di Francesca Sabatinelli:
Sono morti di
sete, dopo aver vissuto un calvario, lo ha testimoniato l’unico superstite, l’unico
che può raccontare di quelle 54 vite spezzate a bordo di un gommone in balia del Mediterraneo.
Erano partiti dalla Libia circa 15 giorni fa, quasi tutti eritrei, diretti verso le
coste italiane e proprio a poca distanza dalla meta i venti hanno respinto in mare
aperto questi disgraziati che rimasti senza acqua hanno cominciato a bere quella del
mare. Il sopravvissuto è stato ritrovato aggrappato ai resti del gommone da alcuni
pescatori tunisini che lo hanno salvato, lui nella sciagura ha perso tre familiari.
L’alto commissariato delle Nazioni Unite ci ricorda che solo nel 2012 sono state 1300
le persone arrivate in Italia dalle coste libiche, 170 circa i morti o i dispersi
in mare durante le loro disperate traversate. E’ un’altra tragedia consumatasi sulla
porta di casa nostra, dice mons. Giancarlo Perego, direttore generale della
Fondazione Migrantes, è “una tragedia che non può ancora una volta non aiutarci a
pensare a un mondo in fuga, senza vie di fuga: migranti alla ricerca di un Paese,
di una casa”:
R. - Di fronte a questi fatti, il primo pensiero va anzitutto
alla nostra responsabilità di presidiare un mare, il Mediterraneo, che forse potrebbe
essere maggiormente pattugliato perché, soprattutto in questo periodo, partono molte
imbarcazioni di profughi, di persone che sono potenziali richiedenti asilo e che certamente
hanno bisogno di protezione umanitaria. Oggi, il Mediterraneo, deve diventare anche
un luogo in cui tutte le forze marittime, e tutte le forze navali che lo navigano
e lo solcano, possano essere anche strumenti importanti per salvare tante persone,
rendendo così questo mare una via di fuga sempre più protetta, un canale umanitario
che di fatto possa salvaguardare migliaia di persone che fuggono da drammatiche situazioni.
D. – Mons. Perego, chi fugge è eritreo, somalo, proviene da luoghi massacrati
da conflitti, dalla carestia, dalla siccità. In che modo, se possibile, si può intervenire
direttamente in quei Paesi?
R. – Credo che questa situazione interpelli in
due direzioni: la prima è certamente quella di rafforzare la cooperazione internazionale,
che in questi anni invece ha avuto una grave battuta di arresto legata alla crisi,
ma legata forse anche ad una non attenzione a questi Paesi. Un secondo aspetto, certamente
importante, è intervenire all’interno di questi Paesi, ma anche nei Paesi di transito,
affinché ci sia un maggiore controllo. Tante volte la politica internazionale interviene
laddove ci sono grossi interessi economici, al contrario, laddove non ci sono, tante
volte le persone vengono abbandonate a se stesse, oppure abbandonate a trafficanti
che controllano il viaggio di queste persone in fuga. Queste due direzioni credo che
siano due direzioni importanti sulle quali dovrebbe muoversi la politica e importanti
anche per l’azione di sviluppo nella quale siamo tutti impegnati.
D. – Questo
suo è un richiamo soprattutto a Paesi, come l’Italia, che si affacciano sul Mediterraneo,
ormai diventato uno dei tratti di mare più percorsi proprio da chi è in fuga...
R.
– Io credo che l’Italia, nel contesto europeo, possa avere questa grossa vocazione
oggi di diventare una porta d’ingresso per l’Europa per tante persone che sono effettivamente
in una situazione drammatica. Credo possa stimolare anche la coscienza europea a fare
in modo che effettivamente, come del resto è stato proposto a livello europeo, ci
sia una gestione del diritto d’asilo in maniera comunitaria, inteso come un diritto
d’asilo europeo, e con la capacità, effettivamente, per ognuno dei 27, di organizzare
strutture, servizi e anche percorsi di legalità che aiutino effettivamente l’accoglienza,
ma che aiutino soprattutto il poter ricominciare da parte di queste persone una vita,
all’interno di una situazione di tranquillità dove possono dare il massimo di se stessi.
Non dimentichiamo che tante volte dai rifugiati, che noi abbiamo accolto negli ultimi
anni, sono uscite persone fondamentali nella storia economica, sociale e politica
dell’Italia, ma anche dell’Europa.
Nelle acque del Mediterraneo si continua,
dunque, a morire. Stupisce il fatto che il barcone su cui sono morti i 54 immigrati
abbia vagato in mare senza ricevere soccorsi addirittura per 15 giorni. C’è un motivo
per cui, in questi casi, le operazioni di soccorso possono essere scoraggiate? Adriana
Masotti l’ha chiesto a Gabriele Del Grande di Fortress Europe, osservatorio
on line sulle vittime dell’immigrazione verso l’Europa:
R. – Abbiamo
un unico precedente di condanna di pescatori per un salvataggio: era il 2007. E’ un
precedente che sicuramente può, a volte, intimorire i pescatori o i mercantili dal
prestare soccorso. C’è anche da chiedersi come mai in quel tratto di mare non ci fossero
militari: come mai le navi della nostra Marina Militare, della nostra Guardia di Finanza,
della nostra Guardia Costiera, in altri tempi così attive a fare respingimenti in
Libia, questa volta non fossero lì per pattugliare, per intercettare e per soccorrere
questa barca…
D. – La politica dei respingimenti e gli accordi tra l’Italia
e la Libia - stipulati dal precedente governo italiano - venivano giustificati con
la volontà di prevenire le morti in mare: impedire le partenze per impedire le morti.
Ma in queste politiche c’è qualcosa che non torna...
R. – Ci sono molte cose
che non tornano. E’ impensabile reprimere, per mano militare, la volontà delle persone
di spostarsi! Gli accordi firmati in passato hanno avuto l’unica conseguenza di spostare
le rotte e quindi di renderle più pericolose e più lunghe. Quest’anno gli sbarchi
sono drasticamente diminuiti, sono arrivate soltanto 1.300 persone dall’inizio dell’anno,
eppure i morti in mare continuano e continueranno fintanto che qualcuno continuerà
a tentare la traversata. L’unica vera soluzione sarebbe, invece, aprire alla mobilità:
se queste persone avessero la possibilità di fare quel viaggio comodamente seduti,
su un aereo low cost, diretto nei nostri Paesi, non staremmo oggi qua a chiederci
quale potrebbe essere la soluzione per evitare così tanti morti. Sono ormai più di
20 mila i morti negli ultimi 20 anni alle frontiere dell’Europa.
D. – Ma l’Europa
continua a temere di essere invasa dagli immigrati. E’ un timore giustificato?
R.
– No, non è un timore giustificato. Anzitutto gli arrivi non sono mai passati via
mare. Via mare arrivano pochissime persone rispetto al totale: pensiamo all’Italia,
dove abbiamo 5 milioni di stranieri residenti nel nostro Paese e più della metà sono
europei e dunque persone che non sono mai arrivate dal mare. In realtà l’unico fattore
che regola gli arrivi e il numero degli arrivi è il mercato del lavoro. La dimostrazione
di questo è il fatto che negli anni in cui l’economia tirava – anche in Italia – arrivavano
moltissime persone anche via mare; negli anni della crisi non sta arrivando più nessuno.
Il grande tema adesso, parlando di immigrazione, è il ritorno: centinaia di migliaia
di persone stanno lasciando l’Europa per il semplice fatto che c’è crisi, che non
c’è più lavoro. Quindi l’Europa dovrebbe smettere di avere paura e governare, appunto,
le proprie frontiere, le proprie politiche sulla mobilità in modo più pragmatico e
più attento ai diritti e alle vite delle persone. Il vero sforzo politico deve essere,
secondo me, non tanto diretto nell’aumento del salvataggio – cosa pur necessaria –
quanto nel rendere possibile viaggiare in altri modi. Il problema è nel diritto alla
mobilità: siamo nel 2012 e penso che in un mondo globalizzato, in un villaggio globale,
spostarsi da una parte all’altra di un mare, come il Mediterraneo, dovrebbe essere
un qualcosa che appartiene alla normalità.