Sud Sudan: tensioni alla vigilia del primo anniversario dell’indipendenza
Il 9 luglio dello scorso anno il Sud Sudan si è dichiarato indipendente dal Sudan.
L’inizio, dunque, di una nuova fase per il Paese dopo 50 anni di lotte intestine.
Tuttavia, permane una situazione di tensione tra Giuba e Khartoum, divise dal controllo
di alcune regioni petrolifere, tanto che le Nazioni Unite, pochi giorni fa, hanno
prolungato di un anno la missione in Sud Sudan. A preoccupare è pure la grave situazione
umanitaria per i profughi di entrambi i Paesi che sfuggono alle violenze. Sono dunque
molti i nodi irrisolti tra i due Sudan come conferma, al microfono di Marco Guerra,
la prof.ssaAnna Bono, docente di Storia e istituzioni dell’Africa all’università
di Torino:
R. – La principale
questione irrisolta è quella dei confini, che non sono stati esattamente definiti
e questo ha creato dei contrasti che durano tuttora. Poi l’attribuzione a uno dei
due Stati di due regioni per le quali era già previsto che si svolgessero dei referendum,
che invece non si sono tenuti. La ragione per cui i referendum non si sono svolti
è che la secessione del Sudan ha tolto al Nord del Sudan il 75 per cento dei suoi
proventi derivanti dal petrolio: il che ha comportato e sta comportando dei problemi
enormi per l’economia e quindi anche per la vita sociale del Sudan, che non si può
permettere di perdere ulteriormente risorse e che sta quindi cercando di mantenere
e anzi di rivendicare ulteriori giacimenti di petrolio. E’ oramai quasi una questione
di sopravvivenza per entrambi i Paesi.
D. – Tra marzo e aprile scorso i contrasti
tra i due Paesi sono sfociati in scontri armati lungo la frontiera. C’è il rischio
di una nuova guerra?
R. – Questi scontri sono stati scontri cruenti e con ripercussioni
gravissime sulla popolazione. Finché non si risolverà la questione dei confini, l’attribuzione
dei territori, è talmente importante la posta in gioco, che i due Paesi sono disposti
a ricorrere alle armi. Bisogna poi aggiungere che la secessione ha sì attribuito il
75 per cento delle risorse petrolifere al Sudan, lasciando però al Sudan residuo –
diciamo al Nord del Sudan - le poche raffinerie esistenti e soprattutto la discrezionalità
per quel che riguarda il trasporto del greggio sud sudanese fino a Port Sudan, che
è il termine unico attraverso il quale il Sud Sudan può esportare il suo petrolio.
Da qui – va aggiunto, perché è molto importante - è nato un ulteriore contenzioso
dalle conseguenze davvero drammatiche, perché il Sud Sudan per trasportare il suo
petrolio dovrebbe pagare – e questa è la richiesta di Khartoum – 36 dollari per barile
di greggio: una cifra veramente astronomica! Il risultato è stato che il Sud Sudan
da gennaio non produce petrolio e quindi è alla bancarotta; il Sudan ha perso anche
questo tipo di risorsa ed è alla bancarotta esattamente come Giuba.
D. – In
che condizioni socio-economiche si trova il neonato Stato del Sud Sudan?
R.
– Naturalmente questa situazione sta avendo delle ripercussioni molto serie su una
popolazione che – bisogna ricordarlo – è provata, è stremata, è decimata tra l’altro
da una guerra civile che è durata praticamente 50 anni. Sembra che il governo di Giuba
- risulta ormai evidente - non abbia fatto granché per avviare lo sviluppo economico
e sociale del Paese; in più sembra che le nuove leadership del Sud Sudan non abbiano
saputo resistere alla tentazione della corruzione, del malgoverno. La popolazione
è poverissima, vive per lo più in condizioni non solo di estrema povertà, ma di abbandono
perché mancano le infrastrutture e mancano al punto che è difficile prestare soccorso
a questa popolazione, anche da parte della comunità internazionale; mancano ospedali,
mancano scuole. Il Paese manca di tutto! In più ci sono i profughi: si tratta delle
popolazioni che vivono negli Stati del Sudan, immediatamente al di là della frontiera,
dove il governo di Khartoum combatte contro dei movimenti ribelli armati. C’è poi
ancora il problema – tutt’altro che secondario – dei circa 700 mila sud sudanesi che
hanno vissuto finora nel Sudan e che si sono ritrovati – dal 9 luglio scorso in poi
– stranieri in terra straniera. Il ritorno di tutti questi immigrati è un problema
che si aggiunge ad altri problemi: in patria non hanno casa, non hanno lavoro, non
hanno terra, non hanno bestiame e quindi hanno bisogno di tutto; hanno bisogno di
ricominciare una vita in un Paese che in questo momento di risorse ne ha veramente
molto, molto poche pur essendo un Paese potenzialmente ricchissimo.