Il primo bimbo lasciato nella "Culla della Vita" a Milano: tantissime richieste di
adozione da tutta Italia
Pesa poco più di un chilo ed è nato una settimana fa il bimbo lasciato nella "Culla
della Vita" della clinica Mangiagalli di Milano, una versione moderna della medioevale
"ruota degli esposti". La struttura, nata nel 2007, proprio per prevenire il fenomeno
di abbandoni drammatici, come quelli nei cassonetti, che mettono a rischio la vita
dei neonati, non era mai stata utilizzata. “Si tratta di un gesto d’amore di una mamma
in difficoltà che ha voluto donare la vita a suo figlio”: questo il commento di Marco
Griffini presidente dell’Aibi, Associazione nazionale Amici dei Bambini. Cecilia
Seppia lo ha intervistato:
R. – Diciamo
che proprio il nome, “Culla della Vita”, dà il significato di questa gesto: questa,
donna, questa mamma, non ha abbandonato, ha donato! Speriamo che adesso non ci sia
"accanimento" da parte delle forze dell’ordine nel rintracciare questa donna. Questa
donna è stata chiara nel suo gesto: non l’ha abbandonato perché non dimentichiamoci
che quando capitano questi casi sono, purtroppo, la punta di un iceberg, perché la
maggior parte di questi bambini vengono lasciati in posti dove non si troveranno mai.
Poi, certamente, come tutte le volte che c'è un "abbandono" di questa natura, sono
tantissime le richieste di adozione. Questo è un secondo significato che il gesto
vuole mettere in luce, come l’adozione sia un fatto naturale.
D. – Le difficoltà
economiche, la precarietà lavorativa e abitativa, l’irregolarità per quanto riguarda
gli immigrati, sono tanti fattori che possono portare una mamma a compiere questo
gesto. Però, fondamentalmente lei dice: la vita è stata tutelata, la vita ha vinto...
R.
– Questa madre, vivendo a Milano, avrebbe potuto tranquillamente abortire, non portare
a termine la gravidanza. Ha voluto portarla a termine e ha consegnato il bambino a
una struttura protetta. Quindi io non vedo la disperazione, questo è un gesto di speranza!
La disperazione è nell’aborto, è nell’uccisione della vita, nel fare del male ai propri
piccoli.
D. - Dietro queste donne, queste mamme, che compiono questi gesti
drammatici, c’è una vita di solitudine... Che cosa fare per loro, come aiutarle?
R.
– Noi abbiamo presentato una proposta in Parlamento che è l’adozione del nascituro.
Si dà la possibilità a queste donne che sono in un momento di disperazione, in un
momento di difficoltà, di poter dare in adozione il nascituro, il bambino che hanno
in gestazione e infatti è definita “adozione in pancia”; salvo poi dare la possibilità
a queste madri, una volta che il bambino nasce, di poter rinunciare all’adozione e
di tenersi il bambino. Questo vuol dire mettersi a fianco di questa donna, dicendo:
ho già adottato e adotto tuo figlio, se poi lo vuoi tenere, una volta che nasce, lo
puoi tranquillamente fare. Questa è una soluzione, che magari fa discutere chi non
comprende le finalità, però è un sistema innovativo, per quanto riguarda l’Italia
- negli Stati Uniti è ormai una realtà da 30 anni - che ha dato la possibilità a migliaia
di donne di evitare l’aborto e a moltissime di queste mamme di tenere il bambino,
ad altre invece di darlo in adozione mantenendo anche i rapporti con la famiglia che
l’ha adottato.
D. - Il direttore della clinica Mangiagalli, facendo riferimento
ai dati e all’esperienza dell’ospedale, ha detto che non c’è una gran differenza negli
abbandoni tra italiani e stranieri, non c’è una nazionalità che prevale sulle altre.
E’ così?
R. – Mi pare che ormai siamo arrivati al 50 per cento, almeno per
quanto riguarda i dati che abbiamo dei bambini accolti nelle strutture di accoglienza.
Ormai siamo arrivati al 50 per cento: 50 per cento italiani e 50 per cento figli di
immigrati, di stranieri. Vuol dire che le situazioni di emarginazione nonsono
più importanti per quanto riguarda le famiglie straniere.