Giornata mondiale contro la desertificazione. A rischio i terreni agricoli dei Paesi
industrializzati
Si celebra oggi la giornata mondiale contro la desertificazione, quest’anno dedicata
alla tutela del terreno fertile. Ogni anno infatti 12 milioni di ettari vengono persi
a causa dell’aridità, influendo direttamente su oltre un miliardo di persone. “L’uso
sostenibile dei terreni è un prerequisito indispensabile per garantire la sicurezza
alimentare e tutelare le forniture d’acqua”, ha scritto in un messaggio il Segretario
generale dell’Onu Ban Ki-Moon. Ma la desertificazione non è un fenomeno che riguarda
solamente i Paesi economicamente più deboli, come ci spiega al microfono di Michele
Raviart, il professor Giampiero Maracchi, bioclimatologo del Cnr:
D. - Per quanto
riguarda i Paesi industrializzati, la fertilità - negli ultimi 50 anni - si è ottenuta
prevalentemente con i fertilizzati chimici, che rilasciano ossidi e azoto nell’atmosfera
e l’ossido di azoto è sei volte più efficace dell’anidride carbonica nel creare l’effetto
serra. Quindi bisognerà preoccuparsi di riportare fertilità organica: l’agricoltura
del passato si preoccupava della fertilità organica, specialmente attraverso l’uso
del letame, che veniva dagli allevamenti di bestiame. Quindi vanno un po’ riviste
tutte le tecniche sia per ridurre l’effetto serra, sia per riproporre la fertilità
organica.
D. - Questo avviene nei Paesi sviluppati?
R. - Su questo
modello si stanno muovendo anche la Cina, l’India, il Brasile, la Russia e quindi
sostanzialmente altri tre miliardi di persone, che di rifiuti ne fanno tanti. Come
ha detto anche il Papa, due anni fa, “l’agricoltura è il futuro dell’umanità” e io
concordo con questa valutazione del Pontefice.
D. - Tecnicamente come avviene
il processo di desertificazione?
R. - C’è una desertificazione di origine climatica,
che è legata ai fattori limitanti del clima, in particolare all’aridità; ma c’è anche
una desertificazione di tipo antropico e cioè dovuta alla cattiva gestione del territorio
e questo succede anche in Italia: allora più che di desertificazione, bisognerebbe
parlare di degrado del territorio e cioè un territorio che non è più produttivo ai
fini agricoli e ai fini naturali.
D. - Le terre aride coprono oltre il 40 per
cento della superficie terrestre: come si combatte questo fenomeno?
R. - L’aridità
si combatte raccogliendo l’acqua anche in quelle regioni dove piovo poco, con dei
mezzi - a volte - anche semplici: è possibile immagazzinare e stoccare l’acqua in
vasi; è possibile attingere alle falde; in alcune aree africane c’è addirittura la
possibilità di avere dell’acqua a grandissima profondità. Si tratta più di politiche
ragionevoli in questo senso, più che di limiti naturali.
D. - Vent’anni fa
fu adottata la Convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione. Come giudica
gli sforzi della Comunità internazionale e quali sarebbero le misure da intraprendere
a livello planetario?
R. - Da una parte senz’altro in positivo, perché è un
elemento che serve anche a sensibilizzare attraverso i mezzi di informazione le popolazioni,
i governi; dal punto di vista pratico, francamente grandi risultati non ci sono, finché
questi temi non diventano una parte integrante delle politiche dei Paesi, a partire
però dai Paesi industrializzati. Tutti questi problemi richiedono obiettivamente modelli
diversi.
D. - Quale dovrebbe essere la prima cosa da fare per lottare contro
la desertificazione?
R. - Naturalmente la prima cosa da fare è un censimento
delle aree che sono più a rischio. La seconda cosa da fare è valutare che tipo di
agricoltura c’è in queste aree. Le faccio un esempio pratico: nel nostro Paese, tradizionalmente,
per duemila anni si è prodotto frumento, perché? Perché si semina in ottobre-novembre
e si raccoglie a giugno e quindi utilizza l’acqua di pioggia e senza spreco d’acqua,
perché piove e quindi non c’è la necessità di dover utilizzare le riserve idriche
durante l’estate; dal dopoguerra in poi si sono, invece, affermate colture di origine
subtropicale - come il mais, il girasole, la soia - che hanno bisogno di tantissima
acqua, perché hanno un ciclo estivo e non invernale o primaverile. Bisogna rivedere
anche questi modelli di agricoltura.