Sostegno alle gravidanze patologiche: l'esperienza del Centro Perinatale del Gemelli
Sostenere le gravidanze fortemente patologiche, con particolare attenzione a quei
piccoli ancora nel grembo materno che la scienza medica definisce "incompatibili con
la vita" a causa delle gravi malformazioni che presentano. Questa l'attività del centro
di Caring Perinatale svolta da La Quercia Millenaria Onlus in collaborazione con i
ginecologi del Day hospital di Ostetricia del Policlinico universitario "A. Gemelli",
diretto dal prof. Giuseppe Noia, presidente dell’Associazione italiana ginecologi
ostetrici cattolici. Si tratta della prima esperienza italiana del genere, il cui
bilancio – sono ormai 7 anni di attività - è stato presentato nei giorni scorsi a
Roma. Sul Caring Perinatale Eliana Astorri ha intervistato il prof. Giuseppe
Di Noia:
R. – Il periodo
perinatale, per definizione, si riferisce dalla 28.ma settimana fino a un mese dopo
la nascita. Il Caring perinatale comprende non soltanto questa fascia di settimane,
ma prende “in cura” – un “I care”, un “caring”, espressione inglese per dire “mi
prendo cura” – queste gravidanze sin dal terzo mese: quando già dalle prime diagnosi,
con i moderni apparecchi ecografici, si fanno diagnosi di gravidanze compromesse da
malformazioni fetali molto gravi. Il problema è che c’è una cultura che dinanzi a
questa situazione sceglie la via – cosiddetta, tra virgolette – più facile, mentre
in questo modo non si fa un’azione terapeutica: molto spesso si parla di aborto terapeutico,
ma si tratta di una falsità scientifica ed umana, perché il bambino muore e la mamma
sta male e per cui si dovrebbe parlare di aborto eugenico selettivo. Queste donne,
invece, scelgono di continuare ad accompagnare il loro bambino fino alla morte naturale,
ovviamente in una grande solitudine, in una grande tristezza e con grande sofferenze
personale e di coppia… Noi ci affianchiamo loro, cercando di fare una medicina condivisa
per aiutarle in questo accompagnamento. Spesso molti di questi bambini, però, possono
essere soggetti di terapie e di cure e quindi molto spesso la terminalità è una terminalità
indotta dall’ignoranza, dal non conoscere le storie naturali delle malformazioni.
Allora noi interveniamo con il nostro rigore scientifico, per definire quali sono
i campi di accompagnamento, quali bambini poter curare senza accanimento terapeutico
e quali bambini accompagnare fino all’exitus naturale.
D. – Quali sono
le malformazioni, le anomalie congenite che rendono un feto incompatibile con la vita?
R.
– Spesso è l’anencefalia, l’agenesia renale…
D. – Ci può spiegare di cosa si
tratta?
R. - L’anencefalia è una condizione malformativa in cui il tessuto
celebrale non ha avuto una sua naturale formazione, per cui questi sono bambini che
ovviamente vivono in utero fino alla nascita e poi - per una mancanza proprio di quelle
strutture che permettono l’adattamento alla fase respiratoria - dopo alcuni minuti,
dopo alcune ore e alcune volte dopo alcuni giorni, muoiono. Le agenesie renali, invece,
sono la mancanza formativa di ambedue i reni. Poi ve ne sono anche altre: vi sono
quelle con alterazioni cromosomiche, come la trisomia 13; oppure altre malformazioni
complesse malformative, per le quali spesso inizialmente l’ecografia dà una diagnosi
di non recuperabilità di questi bambini, ma nel proseguo e nella storia naturale di
quello che facciamo noi, spesso poi si evincono situazioni che possono essere corrette
anche prima della nascita, con interventi invasivi ecoguidati, interventi cioè con
disposizioni che entrano nel compartimento del bambino; viene fatta una anestesia
in caso di prelievi di liquidi dalla pancia del bambino, perché se non preleviamo
questi liquidi il bambino muore, ma per fare questo bisogno oltrepassare la cute dell’addome
del feto in utero e per farlo dobbiamo fare una anestesia, perché molti non sanno
che il bambino sente dolore già a partire dalla 18.ma settimana, dove quasi si completa
la innervazione. Il bambino da 18-20 settimane non ha la capacità di gestire il dolore:
una capacità che tutti noi abbiamo e che abbiamo preso nella vita fetale dopo l’inizio
del settimo mese. In queste nove settimane, dalla 18.ma alla 27.ma, il bambino non
sente un dolore 7x, ma sente un dolore 700 x: il che equivale a dire che qualsiasi
cosa si faccia anche nel caso nostro a scopo terapeutico, ma anche nel caso di un
aborto tardivo, il bambino non soltanto muore in quel caso, ma muore anche sentendo
molto dolore. Questo è un dato scientifico. Situazioni che impattano la coppia dinanzi
al fatto che il loro progetto di amore, il loro progetto di un futuro pieno di sogni,
di attuazioni sul piano umano, che sono profondamente condivisibili e comprensibili,
viene frantumato. Il mettersi vicino a queste persone che non vogliono – appunto –
scegliere di chiudere quel progetto di sogni, quel progetto umano di vita, è un modo
per condividere questa sofferenza. Non è certo un cammino facile, ma lo sperimentano
insieme ad operatori sanitari, ad altre famiglie e quindi quella sofferenza viene
spezzata, viene condivisa. Ebbene loro vivono questa esperienza di tracciato – diciamo
- di amore e di sofferenza fino alla fine. Dopo però la sindrome post perdita, il
lutto, l’elaborazione del lutto è come se temporalmente si comprimesse. Noi sappiamo
da molti studi che la sindrome post aborto dura addirittura fino a 70 anni: in alcuni
studi di alcuni colleghi geriatri si è visto che donne di 90 anni ricordavano con
angoscia un aborto effettuato 70 anni prima. Noi sappiamo anche che molto spesso la
sindrome post abortiva può durare molti anni. In queste famiglie, invece, dopo un
anno e mezzo circa, l’80 per cento circa delle famiglie che hanno perso un bambino
si riaprono alla vita e non è il primo figlio, magari è il secondo, il terzo, il quarto…
Il che vuol dire che quel tipo di esperienza, quel bambino cosiddetto incompatibile
con la vita aveva donato e aveva curato le ferite di questo distacco. Perché? Perché
si era sentito amato e la donna aveva fatto un progetto di costruzione affettiva verso
il proprio marito, verso la famiglia, verso i fratellini. Tutto questo si inquadra
non solo in un aspetto di tipo confessionale, ma ha delle radici e delle basi scientifiche
molto forti e questo perché? Perché sono basate sull’evidenza, sull’osservazione e
quando i numeri ci dicono che queste persone hanno trascorso un tracciato di sofferenza
e dolore, ma poi questo si è trasformato in grandissima pace e apertura alla vita,
questo ci conferma che questo modo di servire le persone è giusto.
D. – Come
si accede al centro di Caring perinatale?
R. – Il Protocollo operativo nasce
da una chiamata che viene fatta direttamente al Day Hospital, al 06.30156782: viene
fissato un appuntamento per incontrarci e per fare un primo impatto diagnostico, nel
quale presentiamo tutto il percorso nascita.