Disoccupazione record e delocalizzazione: intervista con il prof. Zamagni
In primo piano, in questi giorni, il dramma della disoccupazione che nell’Eurozona
è salita ad aprile all’11%. Negli Stati Uniti siamo all’8,2% mentre in Italia, nel
primo trimestre 2012, il tasso dei senza lavoro è del 10,9%. La disoccupazione sembra,
dunque, colpire anche se in modo diverso tutto l’Occidente. In questo scenario quanto
pesa la scelta sempre più frequente di delocalizzare le imprese in paesi dove il costo
del lavoro è molto basso? Debora Donnini lo ha chiesto a Stefano Zamagni,
professore di economia all’Università di Bologna:
R. – Pesa tanto
anche se non è l’unica causa esplicativa di questo nuovo dramma che è la disoccupazione
di massa. Un grande economista inglese di metà dell’800, John Stuart Mill, fu il primo
ad avvertire che la liberalizzazione degli scambi avrebbe, sì, provocato guadagni
ma c’è l’altro lato della medaglia, cioè i costi che derivano dalla internazionalizzazione.
Oggi con la globalizzazione e quindi con la delocalizzazione, che ne è uno degli effetti
più rilevanti, il monito di John Stuart Mill è ancora più valido. E invece cosa abbiamo
fatto? Abbiamo dimenticato il secondo lato della medaglia, abbagliati dai guadagni
del commercio internazionale. E’ evidente che nel lungo andare - vuol dire decenni
- la delocalizzazione porterà ad un eguagliamento delle condizioni di vita tra Paesi
in via di sviluppo e Paesi già sviluppati, ma nel frattempo – 20, 30 o 40 anni - coloro
i quali si trovano nei Paesi sviluppati dove le imprese - soprattutto le multinazionali
- delocalizzano, si vengono a trovare in mezzo alla strada, come stiamo appunto vedendo.
Allora, non si tratta di dire come qualcuno vuole: facciamo politiche protezionistiche,
che è esattamente l’errore opposto a quello che si sta facendo. Protezionismo e neoliberismo
vanno a braccetto. Bisognerebbe che la classe dirigente capisse questa cosa. Se invece
uno è convinto solo dei guadagni e l’altro è convinto solo delle perdite, è ovvio
che la povera gente alla fine ci lascerà le penne.
D. – Tra l’altro delocalizzare
in Paesi dove il costo del lavoro è molto basso, anche perché forse ci sono meno diritti,
comporta molti proventi per gli imprenditori…
R. - E’ evidente. Le imprese,
infatti, delocalizzano solo per quello, perché si dice: la natura propria dell’impresa
è quella di generare valore. E’ inutile colpevolizzare le imprese; la colpa è dei
governanti che anziché guidare loro la danza si sono lasciati prendere a rimorchio
dai grossi interessi, i quali evidentemente seguono la logica che tutti sanno.
D.
– Non c’è il rischio per i lavoratori dei Paesi europei di perdere diritti?
R.
– In teoria sì, però non è lì il problema centrale. Il mondo occidentale, l’Italia,
in particolare, ha un movimento sindacale di una forza notevole. Lo abbiamo visto
anche recentemente a proposito dell’articolo 18. Il punto è che poiché non si può
regredire sul fronte dei diritti la conseguenza è un aumento della disoccupazione.
Le imprese ti dicono: non volete accettare orari più lunghi, forme di sfruttamento
innovative? Benissimo, però noi delocalizziamo e voi rimanete senza posti di lavoro.
D.
- Per affrontare tutto questo, lei diceva che è importante che la politica torni a
regolare l’economia; pensando all’Italia e all’Europa come si può fare?
R.
- Bisognerebbe ovviamente avere leader politici come abbiamo avuto nei primi 25 anni
del dopoguerra: De Gasperi, Adenauer, Schuman… Possibile che dopo 11 anni di euro
in Europa non si sia riusciti ancora ad arrivare ad una politica economica comune?
Abbiamo la politica monetaria comune, la moneta comune, ma non la politica economica
o fiscale. Oggi l’Europa è un insieme di egoismi nazionali.
D. - Quello che
lei sottolineava significa, per esempio, fare gli eurobond, far sì che la Banca centrale
europea diventi prestatore di ultima istanza?
R. – Esatto. Bisogna adottare
il modello della Fed, cioè prestatore di ultima istanza, ma soprattutto capace di
creare quella liquidità necessaria. Bisogna che il mercato unico europeo diventi veramente
pluralistico e non invece, come adesso, riservato soltanto alle imprese di tipo capitalistico.
Oggi in Europa abbiamo una marea di imprese sociali che aspettano soltanto il disco
verde per partire e in Europa non si riesce a farle partire. Adesso, sembra che pochi
giorni fa la Commissione ha adottato delibere che vanno nella direzione di consentire
alle imprese sociali di svolgere la loro attività, di creare valore in un modo diverso
da quello delle imprese capitalistiche. E siccome non delocalizzano, sono in grado
- è stato stimato - di produrre posti di lavoro dell’ordine di due milioni in Europa.
Poi ovviamente ci sono le riforme strutturali, a cominciare da scuola, università,
ricerca. Il nostro modello di scuola non è adeguato alle sfide della globalizzazione
e buona parte dei disoccupati è dovuta a questo. In Italia, basta leggere l’ultimo
bollettino della Banca d’Italia, posti di lavoro ce ne sono solo che non sono ricopribili
perché le imprese non sanno che farsene di tutti quei laureati in Lettere, in Giurisprudenza,
e così via mentre avrebbero bisogno di avere tecnici nei diversi ambiti. Bisogna che
il sistema scolastico non lavori più separatamente dal resto della società.