Medio Oriente: settimana di preghiera per la pace, promossa dal Consiglio mondiale
delle Chiese
Inizia oggi la Settimana di preghiera per la pace in Palestina e Israele. Si tratta
di un’iniziativa del Forum ecumenico del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc). L’obiettivo
è anche dare un chiaro segnale al mondo politico oltre che alla comunità civile perchè
non sia dimenticata la difficile situazione di tutte le parti coinvolte nel conflitto
israelo-palestinese e perché si continui a cercare delle soluzioni. Per capire l’attuale
fase di stallo sotto diversi punti di vista, Fausta Speranza ha intervistato
Janiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente:
R. – I negoziati
sono oramai bloccati dal dicembre 2010 e i tentativi di rivitalizzarli, fatti dal
re di Giordania, non hanno dato frutti. Di fatto c’è una situazione di attesa anche
dei risultati delle prossime elezioni americane: di sapere se Obama sarà riconfermato
o meno. C’è però anche uno stallo delle violenze, nel senso che in questa situazione
– mi pare – che la parte palestinese non prema più di tanto, al di là di qualche gesto
dimostrativo, e quindi c’è un po’ una situazione di sospensione: per certi versi si
potrebbe anche dire che ognuno è interessato un po’ al mantenimento dello status quo.
D. – Invece che cosa si potrebbe e si dovrebbe fare per una pace che abbia
veramente il significato di questo termine?
R. – Quello che si deve fare è
chiaro abbastanza a tutti: creare due Stati, con Gerusalemme capitale dei due Stati;
con confini che siano basati grossomodo sui confini del ’67, con scambi territoriali
concordati, la cui entità – se il 2-3 o il 4 per cento – è una cosa da valutare insieme,
per consentire ad Israele di includere alcuni grandi insediamenti lungo la linea verde.
Quindi i temi della pace possibile sono abbastanza chiari, il problema è se c’è la
volontà politica di farli. Da questo punto di vista è importante la recente formazione
di un governo di unità nazionale in Israele, che arriva ormai ad avere una maggioranza
di 94 deputati su 120, perché il Kadima, il maggior partito dell’opposizione, è entrato
nel governo. Questo mette di fatto Netanyahu nelle condizioni di andare avanti con
un processo di pace, anche a tappe: il problema è se lui vorrà, quanta pressione gli
Stati Uniti vorranno esercitare e così via…
D. – Tra “primavera araba”, emergenza
Siria, prima ancora la Libia, ci siamo dimenticati la questione israelo-palestinese?
R.
– La questione palestinese è stata spesso strumentalizzata dai regimi arabi per creare
consenso all’interno su una questione esterna. Di fatto la “primavera araba” si è
focalizzata più sui temi di democrazia interna, sui problemi di economia e di gestione
delle miserie di larga parte della popolazione e quindi la questione palestinese,
la questione israelo-palestinese, è entrata un po’ in secondo piano. Questo non vuol
dire che non vi siano conseguenze: ad esempio, in questo momento, i rapporti di Israele
con l’Egitto sono indubbiamente più freddi di quanto non lo fossero all’epoca di Mubarak
e Israele rischia di perdere il suo miglior nemico e cioè Assad: è chiaro che se gli
insorgenti, che si richiamano grossomodo all’ala sunnita che è la stessa che ha conquistato
la maggioranza in Egitto, dovessero prendere il potere, la situazione sarebbe più
tesa anche con la Siria. C’è quindi una situazione in cui c’è un isolamento crescente
di Israele nel contesto mediorientale, anche se i rapporti di forza – sia interni
al Paese, sia nel contesto internazionale – sembrano più favorevoli ad Israele; più
favorevoli a breve termine, ma sul medio periodo la situazione rischia di aggravarsi
per Israele.