In un libro, le testimonianze drammatiche e coraggiose di donne vittime della tratta
Dar voce a chi è stato sfruttato, torturato, a chi è fuggito dal proprio Paese alla
ricerca di una possibilità per vivere. E’ la sfida dell’ultimo libro, testimonianza,
di Luca Attanasio “Se questa è una donna”, pubblicato da Ibiskos Editrice Risolo.
Tre storie che, attraverso un doppio binario, mostrano culture e tradizioni diverse,
ma anche le atrocità, violenze e soprusi sopportati da tre donne che troveranno, a
rischio della propria vita, rifugio in Italia. Massimiliano Menichetti ha intervistato
l’autore Luca Attanasio:
R. – Il libro
è la raccolta di tre storie di vita di tre donne vittime di tortura. Inizialmente
avevo pensato di mettere insieme queste storie e farne un saggio quasi geopolitico
sul fenomeno della tortura femminile visto che, per due anni consecutivi, ho incontrato
presso l’ambulatorio vittime di tortura al San Gallicano di Roma, decine e decine
di uomini e donne, vittime di tortura, che chiedevano asilo politico all’Italia proprio
per quello che avevano subito nei Paesi di origine o in quelli di transito. Ad un
certo punto, in realtà, ho isolato tre storie di donne: una etiope, copta cristiana,
costretta a sposare un musulmano, fuggita pur di non sottostare a questa situazione.
Poi una donna iraniana, rapita a 12 anni da un afghano e costretta al matrimonio,
ed infine una donna ivoriana di origini burkinabè che, per non essere infibulata,
ha scelto di scappare.
D. – Puoi aprire una finestra su una di queste tre storie?
R.
– Il terzo racconto, “Shirin”, è dedicato ad una donna iraniana, che a 12 anni è stata
rapita da un afghano, venne portata in Afghanistan e poi è stata riportata in Iran,
incarcerata e torturata. Questa donna a 23 anni sceglie di partire dall’Iran, lasciando
tutto, con la sua bambina – che nel frattempo aveva sei anni – e si imbarca in un
viaggio incredibile passando mezza Asia, buona parte dell’Europa fino ad arrivare
in Italia, incontrando i più vari tipi di umanità. Anche qui, è interessantissimo
scoprire quanto è bella l’umanità e quanto, in qualche modo, si riscoprano sentimenti
veri tra profughi in situazioni di estremo disagio. In queste storie, in queste donne,
nonostante tutto si respira questa una grande speranza, il bello è la grande aspettativa
per il futuro.
D. – Usi la parola bello, per sottolineare la speranza che queste
donne hanno negli occhi?
R. – Il bello è anche la grande forza e la grande
umanità che tutte queste tre donne, in maniera assolutamente diversa l’una dall’altra,
mi hanno comunicato nel corso di questi due anni di lavoro con loro. Pur avendo subìto
l’inenarrabile, pur avendo attraversato la palude Stigia del mondo ed aver pagato
Caronte senza scrupoli, affinché le accompagnasse da una parte all’altra del mondo,
pur essendo arrivate ad un passo dalla morte in tantissime situazioni, ora sono qui
e progettano un futuro fatto di figli, di casa, di famiglia e di studio. Una di loro
sta per diplomarsi all’Istituto tecnico per il turismo, è la ragazza ivoriana scappata
ad una persecuzione dovuta alle tradizioni famigliari che volevano infibularla mentre
lei, essendo nata in una famiglia di tradizione cattolica, aveva iniziato questo percorso
di emancipazione da questa condizione. Nel libro si chiama Aminatà.
D. – Il
libro fa anche riflettere, in questa chiave, sull’accoglienza e pone anche l’accento
sul problema di chi è rifugiato, richiedente asilo, profugo…
R. – Siamo noi,
italiani ed europei, a far sentire loro di essere giunti ad un approdo sicuro, certo.
Il libro è anche questo, vuol dire: guardate che ogni donna ed ogni uomo che affronta
tantissimo per venire da noi, dopo aver subito tante violenze, è una richiesta di
approdo e, nello stesso tempo, è una grandissima occasione di confronto e arricchimento,
anche culturale.
D. – “Se questa è una donna” ricorda il noto libro di Primo
Levi “Se questo è un uomo”…
R. – C’è una parte della poesia dell’incipit del
libro di Primo Levi che è proprio dedicata alla donna. Dice: “Giudicate se questa
è una donna”. Ecco, queste parole rifluivano continuamente nella mia mente, mentre
queste donne mi raccontavano le loro storie e la domanda che mi ponevo era semplicemente
questa: può ancora dirsi donna una ragazzina poco più che ventenne, più volte torturata,
che ha ormai dimenticato tutti gli affetti, che viaggia da sola per mesi e mesi, che
non ha contatti umani se non con altri profughi? Può ancora dirsi donna una donna
che arriva con un barcone a Lampedusa dopo sette o otto giorni in mare aperto, sotto
un sole che ti porta ad un passo dalla morte? La risposta che mi danno queste donne
è sì, possono ancora dirsi donne, anzi: si tratta, forse, di prototipi di donne.