RD Congo: scontri e 100 morti in nord Kivu. Mons. Ambongo: la violenza la pagano i
poveri
Nella Repubblica Democratica del Congo, sono stati oltre 100 in una settimana i morti
nella regione del nord Kivu, ma ad essere instabile è tutto l’est del Paese. Anche
la Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) ha da tempo emesso mandati contro vari
signori della guerra. Su questa situazione, Davide Maggiore ha raccolto la
testimonianza di mons. Fridolin Ambongo Besungu, vescovo della diocesi congolese
di Bokungu-Ikela:
R. – Questo
problema non è un problema nuovo: è nato dalla ribellione di Laurent Nkunda e poi,
dopo di lui, di un altro, che si chiamava Bosco Ntanganda. Entrambi hanno ricevuto
un mandato dalla Cpi. Basterebbe prendere questa gente e mandarla lì, per essere giudicata.
Sono criminali e devono essere arrestati, per rispondere di ciò che hanno fatto. Adesso
Bosco Ntanganda ha iniziato la guerra nell’est e si è ribellato contro il governo.
Dunque, sono sempre i poveri a pagare.
D. – Ufficialmente, la guerra nella
Repubblica Democratica del Congo è conclusa da quasi dieci anni e c’è in corso un
processo di pace. Cos’è che però non ha funzionato?
R. – Si può dire che la
guerra sia finita dieci anni fa perché dopo ci sono state due elezioni problematiche,
ma ci sono state. Il problema, nell’est del Congo, è sempre stato quello dei gruppi
armati che vivono dello sfruttamento delle risorse naturali. Per questo motivo, non
vogliono lasciare e qualcuno ne approfitta dandogli le armi per continuare a fare
la guerra. E per fare la guerra, devono sfruttare le risorse naturali. E' un ciclo
che continua: hanno bisogno della guerra per guadagnare i soldi, quindi per guadagnare
hanno bisogno delle armi e per avere le armi hanno bisogno delle risorse naturali.
C’è, dunque, una mafia internazionale da noi.
D. – Cosa cerca di fare la Chiesa
per aiutare quanti sono vittime di questo conflitto?
R. – Noi lavoriamo a due
livelli. Il primo livello, è internazionale: per parlare con i capi del mondo siamo
stati negli Stati Uniti, a Washington, a New York e poi a Parigi, per quella che chiamiamo
“advocacy”. A livello locale, abbiamo un programma che chiamiamo “programma di riconciliazione”,
che aiuta il popolo a vivere insieme anche a quelli che “ieri mi hanno fatto male”.
E’ un programma che noi portiamo in tutte le diocesi del Congo, per aiutare il popolo
a vivere insieme agli altri. Anzitutto nell’est del Paese, lì dove ci sono persone
venute dal Rwanda, dall’Uganda, dal Burundi e poi i congolesi. Ma sappiamo anche che,
al di fuori di questi conflitti, sono i capi a “mettere fuoco” fra i popoli.
D.
– In questa situazione così grave, che va avanti da tanto tempo, la Chiesa vede un
segno di speranza?
R. – I segni di speranza sono tanti, perché il futuro del
Congo è la popolazione: sono le donne, gli uomini, i bambini che sono lì e lottano
ogni giorno per sopravvivere. Questa volontà di vivere è un valore enorme. Dopo tanti
anni di guerra in Congo, un segno di speranza per il futuro del Congo è il popolo
congolese stesso.