Sale la tensione in Somalia dopo la minaccia dei pirati di uccidere gli ostaggi
In Somalia, s’intensifica ulteriormente la lotta alla pirateria. Minacciata l’uccisone
degli equipaggi dopo il raid coordinato dall’UE, avvenuto il 15 maggio scorso, sul
villaggio-base di Handulle, nella regione di Mudug, lungo la costa centrale del Paese.
Attualmente, partecipano alla missione navale antipirateria Atlanta 17 Paesi. A causa
della crisi economica, non ne fa più parte la Grecia, E anche Londra uscirà a fine
mese a causa di tagli interni. A pattugliare le acque del Golfo di Aden, anche le
navi Nato e quelle di altri Paesi come Usa, Russia, Cina, Iran, India. Ad oggi, restano
nelle mani dei pirati circa 17 navi e oltre 300 marinai. Massimiliano Menichetti
ha parlato delle strategie di contrasto del fenomeno con Nicolò Carnimeo, docente
di Diritto della navigazione all’Università degli Studi di Bari e autore del libro
“Nei mari dei pirati”, edito da Longanesi:
R. – Innanzitutto,
dobbiamo dire che quella con la pirateria è una vera e propria guerra marittima e
come in ogni guerra c’è un’escalation della violenza e nelle azioni. Comunque,
i raid a terra non sono una novità, nel senso che erano già previsti da una risoluzione
del Consiglio di sicurezza. Saranno realizzati, vedrete, non solo in Somalia ma anche
nelle altre basi dei pirati come alle Isole Seychelles, alle Isole Andamane… Ovviamente,
questo provocherà delle ritorsioni da parte dei pirati, che non possiamo immaginare.
I pirati controllano ormai la rotta marittima che va dal Golfo di Aden fino all’Oceano
Indiano.
D. – Nelle mani dei pirati, attualmente, ci sarebbero circa 17 navi
e 300 marinai. Minacciano l’uccisione degli uomini, soprattutto europei. E’ una minaccia
concreta o solo un monito?
R. – Ogni ostaggio, per loro, rappresenta la possibilità
di ottenere un riscatto. C’è da dire però che anche da parte dei pirati si è avuta
una crescita di violenza. Adesso si assiste a torture, i prigionieri vengono trattati
molto male… Uccisioni sono già avvenute, sia pure in maniera residuale. L’importante
è che noi non ci mostriamo deboli, facendo passi indietro, ma anzi proteggiamo ancor
più il nostro naviglio mercantile e continuiamo con le strategie adottate fino a questo
momento.
D. – Quindi, bisognerebbe aumentare la forza militare a bordo delle
navi?
R. – Inizialmente, fino ad un paio d’anni fa, anche le maggiori istituzioni
internazionali erano contrarie all’uso di militari a bordo delle navi. Oggi, purtroppo,
siamo costretti ad averle perché lo scenario in cui ci muoviamo è enorme: si tratta
di un milione di miglia quadrate. Nessun pattugliamento, anche di tutte le Marine
del mondo, riuscirebbe a fornire la sicurezza necessaria. Quello che dobbiamo fare
– magari con un addendum alla Convenzione internazionale sul diritto del mare
– è che tutti i Paesi capiscano che questa forma di protezione è necessaria, così
da evitare incidenti come quello avvenuto ai marò italiani in India. Sono necessarie
regole internazionali certe. Tutti i Paesi devono combattere questa piaga della pirateria,
e devono farlo in maniera coesa, in maniera omogenea.
D. – La pirateria viene
combattuta in mare, però c’è anche il problema sulla terraferma, dove la situazione
sembra del tutto fuori controllo…
R. – Noi collaboriamo con questo governo
di transizione somalo che non ha alcun controllo del territorio. Bisogna intervenire
in Somalia, trovare accordi con questi signori della guerra che controllano effettivamente
il territorio e di fatto sono anche coloro che realizzano le azioni di pirateria.
Bisogna ci sia una volontà internazionale forte per far terminare questa piaga, in
qualunque modo. Bisogna intensificare la cooperazione, l’azione diplomatica con questi
Paesi, continuare a sostenere – come facciamo – la popolazione della Somalia, restituire
un governo. Ma naturalmente, su questo, poi, ci sono interessi geopolitici complessi
e contrastanti.
D. – In altre parti del mondo, la pirateria è stata combattuta
efficacemente…
R. – Fino al 2005, la maggior parte degli attacchi pirati nel
mondo avvenivano nello Stretto di Malacca. Ad un certo punto, i Paesi dello Stretto
si sono uniti, hanno creato un pattugliamento comune, hanno realizzato una forte azione
repressiva insieme ad una serie di accordi con le popolazioni che realizzavano questi
attacchi. La pirateria è drasticamente diminuita. Gli antichi romani, per combattere
i pirati, da un lato guerreggiavano con la flotta e dall’altro pagavano, cercavano
di concludere con queste persone accordi commerciali, per cui alla fine ai pirati
non conveniva più compiere attacchi. Per noi oggi impiantare l’antipirateria costa
moltissimo. Quel denaro dovrebbe essere investito in accordi, perché questa piaga
non abbia più il consenso sociale che invece continua ad avere in Somalia. In Somalia,
la popolazione ha poche alternative, se non quella di andare a fare il pirata. E c’è
un consenso sociale su questo. Dobbiamo cercare di intervenire anche in questa direzione!