La necessità di costruire un futuro differente con la Chiesa e per l’uomo di
Fernando Filoni, Prefetto Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, L'Osservatore
Romano La traditio fidei è il primo compito della Chiesa, è la sua missione
e la sua vocazione. Dal Sinodo del 1971 e soprattutto dopo quello del 1974, è apparso
chiaro che non è possibile annunciare il vangelo senza un forte legame con la realtà
sociale africana. Per quanto la situazione sia alquanto migliorata in questi ultimi
decenni, vale la pena di ricordare quanto, con l’abituale forza, scriveva Jean Marc
Ela nel celebre testo sul “grido” dell’uomo africano: «Nell’Africa nera i compiti
dell’evangelo si iscrivono in una regione del mondo in cui le potenze del denaro hanno
deciso di fare di questo territorio dell’umanità una riserva di schiavi e di mano
d’opera a buon mercato. Per le Chiese la questione posta da questa situazione è chiara:
ogni giorno, nel nome dell’evangelo, scrivere la storia della liberazione effettiva
degli oppressi». Se ci chiediamo quale sia la modalità propria della fede africana,
possiamo avvalerci — per comprenderlo — della teologia africana e del suo cammino.
Il punto di partenza non può che essere il documento Promouvoir l’évangélisation
dans la corresponsabilité, presentato al Sinodo dei vescovi del 1974 dall’episcopato
africano nel quale i vescovi dell’Africa e del Madagascar «considèrent come tout à
fait dépassé un certain théologie de l’adaptation en faveur d’une théologie de l’incarnation».
Oltre che a questa prospettiva di inculturazione, la scelta evangelica delle Chiese
africane deve tener conto del Colloquio teologico di Dar-Es-Salaam (1976) che aveva
radunato i teologi del sud del mondo e di quello successivo di Accra (1977) limitato
al mondo africano. In questi colloqui, i teologi africani da una parte hanno unanimemente
rifiutato la teologia occidentale come inadatta alla loro terra e dall’altra hanno
chiesto una teologia contestuale, una teologia attenta al contesto culturale e a quello
storico in cui vivono i popoli africani. Divisi a volte tra teologi della inculturazione
e della liberazione, i teologi africani sono in ogni caso tra i più vicini alle scelte
dei loro vescovi e al cammino delle loro Chiese. Il dato che emerge con forza da
queste semplici indicazioni è la necessità di una teologia attenta al contesto in
cui le Chiese africane operano e vivono. Per parte mia vorrei solo richiamare l’impianto
teologico della Esortazione apostolica Africae munus che sviluppa il servizio
delle Chiese africane alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace in due momenti:
il primo parte da quel Cristo Kyrios che, come Signore, è l’evento che fa nuove
tutte le cose e che fissa il compito della Chiesa al servizio della sua missione di
riconciliazione, giustizia e pace; il secondo parte da quello Spirito che dà a ciascuno
una manifestazione particolare del suo potere per porlo però al servizio di tutti.
In questo modo, attraverso l’evento-Cristo e il compito dello Spirito nasce una
Chiesa nella quale è presente Cristo-Servo, nasce una Chiesa al servizio della sua
missione, una missione che lo Spirito sostiene con i suoi doni. Vorrei guardare
avanti verso il futuro, verso il ruolo che la fede africana sarà presumibilmente chiamata
a giocare nel futuro della Chiesa. Prendo lo spunto da alcuni lavori di Léonard Santedi
Kinkupu, decano della Facoltà di Teologia a Kinshasa, nei quali offre un quadro della
inculturazione o, come scrive nel sottotitolo, della «teologia dell’invenzione». Santedi
sceglie la nozione di “dogma” come nozione fondamentale per delineare la diversità
tra la fede e la cultura e la studia nel Vaticano i e nel modernismo per chiarire
ciò che vi è di incompatibile tra la fede cristiana e la cultura storico-scientifica;
analizza poi la novità della posizione del Vaticano II, la Dei Verbum, e passa
poi a tirare alcune conclusioni sulla attuale comunicazione della fede e sui suoi
problemi. Senza entrare nel merito di questi problemi, ricordo come la comunicazione
della fede, la traditio, avvenga per mezzo di una Chiesa che «trasmette a tutte
le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede»; in altre parole la
comunicazione della fede avviene per mezzo di un corpo vivente, di una Chiesa che
prega, celebra e testimonia. Guardando alla inculturazione da questo punto di vista,
superando la sterile contrapposizione tra inculturazione e liberazione, occorre tornare
a un rischioso ma fecondo incontro tra la vita evangelica di una comunità e la cultura
in mezzo alla quale vive. L’inculturazione non è più definibile come un semplice
adattamento o aggiustamento della proposta cristiana in base ai diversi interlocutori:
è invece una dinamica, meglio ancora un processo, che dà creativamente origine a una
Chiesa viva, fedele al Vangelo e ben consapevole della sua cultura. In modo alquanto
immaginoso, si può sintetizzare questo accogliere e vivere la Parola con tre figure:
il profeta che attualizza la realtà di Dio nella storia, il saggio che, su questa
base, arriva a determinare il modo di abitare il mondo e infine il poeta sensibile
alla novità. In forma più semplice si potrebbe parlare del coraggio e della fecondità
che accompagnano la santità così come la pensiamo oggi. L’universale vocazione alla
santità, di cui parla il capitolo quinto di Lumen gentium, è strettamente collegata
a una universale vocazione alla missione; chiamato alla missione, ogni credente è
l’uomo delle beatitudini che «sperimenta e dimostra concretamente che il regno di
Dio è già venuto e che egli lo ha accolto». Tra i molti aspetti spirituali, liturgici,
pastorali, sociali, istituzionali che si potrebbero trattare vorrei parlare dell’importanza
dell’educazione e della sua applicazione alle figure dei seminaristi e dei sacerdoti.
Si può dire che la formazione teologica è per un verso rivolta a fare dei sacerdoti
e dei consacrati delle persone qualificate per l’attività pastorale e per la formazione
spirituale dei credenti e, per un altro, mira a porre le basi per quei ricercatori,
docenti e dirigenti di cui la vita della Chiesa ha bisogno. So che questa università
e i seminari delle diocesi africane fanno gran conto delle indicazioni del Decreto
sulla formazione sacerdotale Optatam totius che mettono al primo posto la conoscenza
delle fonti, la storia delle dottrine e delle istituzioni cristiane e la loro interpretazione
alla luce del magistero. Ritengo però che non si debbano sottovalutare le osservazioni
di Ad gentes che invitano le giovani Chiese ad «assorbire tutte le ricchezze
delle nazioni, che a Cristo sono state assegnate in eredità». Queste due indicazioni
non si contraddicono e, nel loro insieme, delineano un processo di comunicazione della
fede che recupera il dato della rivelazione e la storia della sua vitalità in quel
corpo vivente che è la Chiesa, si impegna in un lavoro interpretativo che insegni
a discernere ciò che è fondamentale e ciò che invece rappresenta l’espressione di
un tempo passato o di una cultura diversa da quella in cui si vive e passa poi a incarnare
la fede e la sua celebrazione nella maniera più adatta al mondo e alla cultura in
cui queste comunità vivono. Comunione e creatività appaiono i due impegni di ogni
autentica formazione teologica, di ogni cammino volto a preparare le persone per un
vero servizio ecclesiale. In questa direzione si può arrivare alla elaborazione di
una fede e di un culto attento alla esperienza africana e, pur nella sua originalità,
capace di illuminare aspetti originali della fede per il bene di tutti. In un
periodo post-coloniale come questo, l’attenzione alle caratteristiche culturali e
alle modalità religiose del rivolgersi a Dio di ogni popolo vanno valorizzate ma vanno
mantenute in un quadro comunionale e cattolico che renda evidente l’unica fede nel
Signore Gesù e la pluralità delle sue forme storiche. In questo cammino educativo
vi è una sfida teologica ed ecclesiale che viene vissuta nelle comunità ma che va
vinta qui, nelle università e nei seminari, con uno studio rigoroso e impegnativo.
La sfida è alta; la nostra capacità di una risposta responsabile e altrettanto profonda
deve essere alla stessa altezza. Per questo vorrei chiudere con le parole di Paolo
VI del 31 luglio 1969. A Kampala, in Uganda, durante l’omelia della celebrazione eucaristica,
Paolo VI pronunciò quel discorso che ha un valore profetico anche oggi: «Voi Africani
siete oramai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in
questa terra benedetta. (…) Missionari di voi stessi: cioè voi Africani dovete proseguire
la costruzione della Chiesa in questo Continente. Le due grandi forze (oh! quanto
differenti e disuguali!), stabilite da Cristo per edificare la sua Chiesa, devono
essere all’opera insieme: la gerarchia e lo Spirito Santo devono essere all’opera
in forma dinamica, come appunto si conviene a una Chiesa giovane, chiamata a offrirsi
a una cultura aperta al Vangelo, com’è la vostra africana. (…) Un lavoro immenso si
prepara alle vostre fatiche pastorali; quello specialmente della formazione dei cristiani,
chiamati all’apostolato: il Clero, i Religiosi, le Religiose, i Catechisti, i Laici
attivi. Dipenderà dalla preparazione di questi elementi locali, scelti e operanti
del Popolo di Dio, la vitalità, lo sviluppo, l’avvenire della Chiesa africana».