Partita la corsa alle risorse petrolifere del Polo Nord: grandi i rischi ambientali
La corsa ai giacimenti di petrolio e gas del Polo Nord è partita: nuove basi esplorative
si stanno moltiplicando in tutta la zona dell’Artide. Le principali potenze mondiali
e le compagnie petrolifere hanno in progetto lo sfruttamento massiccio di quest’area:
ma grandi sono i rischi ambientali. Sulla corsa alle risorse energetiche del Polo
Nord, Federico Piana ha sentito Valerio Rossi Albertini, ricercatore
del Consiglio Nazionale delle Ricerche:
R. - Viene fatta
perché le scorte planetarie di petrolio si stanno assottigliando in maniera consistente.
Andiamo incontro al cosiddetto “picco” del costo del prezzo: quando una parte consistente
delle riserve si è esaurita, per la più fondamentale delle leggi di mercato, i prezzi
iniziano ad aumentare. Allora noi ci troveremmo di fronte ad un’altra crisi petrolifera,
ed anzi, inevitabilmente questo sarà il nostro destino, se non correremo ai ripari
in altra maniera invece di andare a perforare le aree protette. Perché mentre le crisi
petrolifere del passato sono state contingenti, ad esempio quando le Sette Sorelle
decisero di ridurre la produzione di greggio -quindi fu fatto un po’ ad arte-, in
questo caso, nel momento in cui le scorte iniziassero ad esaurirsi, ci sarebbe invece
una crisi strutturale, dalla quale non sarà possibile tornare indietro. È stimato
che ci sia il 13 percento delle riserve mondiali sotto la calotta artica; allora iniziano
ad esplorare, a fare delle prospezioni anche in quelle zone che dovrebbero essere
protette, così come lo è l’Antartide. In Antartide fu fatto un protocollo di intesa,
sottoscritto in piena Guerra Fredda da tutti quanti i Paesi, che vietava, precludeva,
la possibilità di andare a fare questo genere di perforazioni, di trivellazioni. Purtroppo
l’Artide non è protetto da un protocollo di intesa e di tutela dello stesso genere,
e quindi questi progetti, potrebbero effettivamente concretizzarsi. Adesso una speranza
è che alla fine di giugno, il 20 di giugno esattamente, ci sarà il summit mondiale
chiamato “Rio+20”, a cui tutti quanti i Paesi sono invitati a partecipare. Il nome
“Rio+20” nasce proprio per evocare lo stesso summit, lo stesso incontro che fu fatto
venti anni fa a Rio de Janeiro, in cui per la prima volta, i grandi della Terra, si
accordarono per una prospettiva di sviluppo sostenibile a livello planetario. Ora,
in questa sede gli auspici sono buoni; questa potrebbe essere la prima occasione per
tentare di concordare un piano di azione che preservi l’Artide dalla profanazione.
D.
- Secondo lei, quale potrebbe essere il danno ambientale provocato da questa estrazione
così selvaggia di gas e petrolio?
R. - Allora, prima cosa: la trivellazione
stessa produce un danno ambientale notevolissimo, perché questa comporta uno sconvolgimento
dell’ecosistema. Non bisogna immaginare che una trivella sia semplicemente una punta
di trapano che entra nel terreno; si tratta di un cantiere immenso che ruota intorno
a delle macine di roccia - perché così sono in fondo le trivelle - che triturano tutto
quello che trovano nel loro percorso, e tutto l’insediamento industriale intorno ad
esse comporta un disastro ambientale già in partenza. Poi c’è un’altra considerazione:
abbiamo visto quello che è accaduto nel Golfo del Messico; un banale incidente, perché
tale era, una tubazione che si era rotta, ha prodotto uno sconvolgimento, ed eravamo
nel Golfo del Messico, eravamo in prossimità delle coste degli Stati Uniti, quindi
una zona molto controllata, e nonostante ciò, non c’è stato niente da fare. Ci sono
voluti mesi per tappare la falla, figuriamoci se capitasse in una zona che è lontana
da occhi indiscreti, e dove è difficilissimo arrivare, dove tutte quante le attrezzature
possono essere trasportate soltanto in tempi lunghi. In questo caso c’è da ritenere
- perché la logica ci suggerisce questo - che lì una falla produrrebbe un’emissione
di petrolio che potrebbe veramente compromettere la vita dell’Artide.