Messico. 50 morti per il controllo del narcotraffico. Ucciso anche un giornalista
In Messico, 50 corpi martoriati sono stati trovati sulla strada per Monterrey. Si
tratterebbe dell’ultima strage per il controllo del narcotraffico. Di oggi anche la
notizia dell’uccisione di un altro giornalista, il quinto in due settimane che indagava
sul crimine organizzato. Negli ultimi sei anni, sono 50 mila le vittime dei cartelli
della droga. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Enza Roberta Petrillo,
esperta di crimine organizzato transnazionale e di traffici illeciti, collaboratrice
di diverse organizzazioni internazionali tra cui le Nazioni Unite:
R. – Parlare
di narcotraffico in Messico implica due livelli fondamentali: un livello economico
e un livello politico. Il livello politico, soprattutto, ha a che fare con una struttura
statuale sempre più debole. Dal 2000, anno della grande rimonta dei cartelli criminali
messicani e anno che coincide poi con l’ascesa di Calderon, che ha a che fare con
uno stradominio dei cartelli criminali dovuto anche alla labilità delle strutture
politiche di governo. Labilità che è determinata da due grossi elementi: l’ingerenza
politico-militare degli Stati Uniti d’America nella gestione della lotta al narcotraffico
e la debolezza delle strutture di governo messicane sempre più incapaci di lanciare
una linea autonoma e indipendente di contrasto ai traffici di stupefacenti.
D.
– Uno dei punti di criticità è quello dell’ingerenza degli Stati Uniti nella lotta
al narcotraffico. In che senso?
R. – Si ha a che fare con due grandi piani
a egida, appunto, statunitense. Uno è il piano-Colombia, che ha coinvolto un Paese
territorialmente contiguo, mentre l’altro è l’iniziativa Mérida, che è un’iniziativa
con partnership del governo di Felipe Calderon che puntava a spodestare le grandi
reti distributive, ovvero i cartelli criminali messicani. Che cosa è accaduto? E’
una guerra persa perché anzitutto l’inasprimento della linea repressiva nella strategia
di contrasto coincide quasi sempre con un cambiamento delle rotte, tant’è che si è
assistito in contemporanea, per esempio, alla ripresa della rotta di narcotraffico
venezuelana, che è stata l’esatta risposta a questa strategia. C’è un altro punto:
l’ambiguità di Felipe Calderon nell’appoggiare l’iniziativa Mérida. L’iniziativa Mérida
ha fatto piovere sul Messico milioni di dollari che, per la verità, sono stati una
boccata d’ossigeno anche per altri fronti degli affari messicani. In realtà, però,
Felipe Calderon non è riuscito a gestire i grandi nuclei di potere criminale interni
alle strutture di governo, tant’è che comunque a un certo punto c’è stata una riunione
recentissima a Cartagena e lo stesso Calderon ha ammiccato addirittura alla legalizzazione
dell’utilizzo delle sostanze stupefacenti, che sembra un po’ l’ultima sponda per poter
fronteggiare un fenomeno che è in costante crescita.
D. – 50 mila morti dal
2006: numeri da guerra…
R. – E’ una faida che però, purtroppo, vede coinvolti
come protagonisti anche grossi esponenti delle strutture di governo e molto spesso
anche ufficiali di polizia. Per cui, è molto difficile distinguere tra ciò che è lecito
e ciò che non lo è, in uno scenario cangiante e complicato come lo è quello messicano.
C’è poi un ulteriore aspetto: la militarizzazione di un territorio che non è operata
soltanto dai narcos. Molto spesso, sono le stesse forze di polizia che rastrellano
alla cieca per legittimare una guerra al narcotraffico che sembra sempre più debole.
Molto spesso, in questi rastrellamenti finiscono persone del tutto innocenti. Questo
accade in particolare in territorio di frontiera, quello che vede coinvolta ad esempio
la città di Tijuana, o la città di Ciudad Juarez dove, nel 2009 – l’anno dell’occupazione
della città da parte delle forze governative, conclusa nel 2010 – non si è riusciti
assolutamente ad arginare la tracotanza della violenza a opera dei narcos,
e addirittura ad aggravare la situazione hanno contribuito poi le truppe antidroga:
nei soli primi sei mesi del 2009, ci sono state circa 2.900 denunce a loro carico,
registrate appunto da Human Rights Watch.
D. – Questo perché non si riesce
a identificare correttamente chi siano i narcos e quindi si compiono rastrellamenti
casuali?
R. – Lo scenario dei cartelli criminali è uno scenario molto fluido,
fatto di alleanze abbastanza temporanee. Per esempio adesso, rispetto al caso Monterrey,
si suppone che sia collegato a una faida tra il cartello de Los Zetas e il cartello
di Sinaloa. E’ evidente che quando c’è uno scenario di violenza che cresce sempre
di più, c’è anche uno scenario di ricomposizione politica delle logiche interne ai
clan. In sostanza, non si capisce chi comanda, in questo momento. E naturalmente,
anche le strategie di contrasto patiscono questa difficoltà nell’identificare chi
sia il protagonista chiave su cui puntare l’attenzione. Molto spesso, per esempio,
ci sono alleanze di comodo per questioni meramente economiche. Per esempio, per gestire
una rotta criminale più vincente rispetto a un’altra, c’è un’alleanza tra due cartelli
che magari fino al mese precedente avevano avuto conflitti a fuoco.
D. – Quale
è la reazione della popolazione?
R. – La reazione forse è raccontata bene da
un fenomeno in ascesa nel contesto messicano: la cosiddetta "narcocultura". Cosa accade?
Accade che naturalmente la popolazione, nelle aree di frontiera, è terrorizzata dai
narcos. Però, accade che in qualche modo il fenomeno criminale venga anche
“legittimato”. Per esempio, uno dei fenomeni in ascesa in questo momento sono i narcocorridas,
sorta di cantanti neomelodici che cantano le gesta dei grandi eroi criminali. Naturalmente,
i loro concerti sono affollatissimi, veicolano una cultura vera e propria; addirittura,
i boss celebrano se stessi con video sistematicamente postati su facebook, che ritraggono
appunto boss ricchi e volgari che sfoggiano scarpe di coccodrillo, camicie di stile
italiano o orologi da centinaia di migliaia di dollari. Queste persone stanno diventando
degli “eroi”, in un momento in cui c’è uno Stato molto debole che non garantisce protezione,
una crisi economica che anche lì si sente molto e soprattutto, molto spesso, alcuni
dei cartelli criminali si propongono proprio come elargitori di sicurezza in un contesto
in cui lo Stato non sa difendere i propri cittadini.
D. – Le frontiere messicane
sono un groviglio di tunnel, c’è corruzione anche nell’apparato di pubblica sicurezza
e il fenomeno è estremamente fluido. Come si può risolvere questa situazione?
R.
– La frontiera non è soltanto un luogo di scambio e di transito di traffici illeciti
connessi alla droga. La frontiera naturalmente è connessa, per esempio, a tutto il
viavai continuo di migranti messicani che cercano di approdare negli Stati Uniti per
ragioni di lavoro. La frontiera è anche connessa anche ad un altro tipo di traffico,
che tra l’altro sta superando per entità lo stesso traffico di droga, ed è il traffico
di armi. Ora, bisogna potenziare la sicurezza e l’operatività delle strutture di controllo
locali. Noi dobbiamo considerare che l’azione sulla frontiera è un’azione gestita
dall’alto, dall’esercito, in quell’area. Chiaramente, non c’è a livello locale una
responsabilizzazione degli attori locali. Ancora, bisognerebbe soprattutto ragionare
in un’ottica globale e quindi non agendo soltanto su uno scacchiere di tipo frontaliero,
ma cercare di comprendere qual è la rotta intera del circuito criminale. Voglio spiegarmi
meglio: è una cocaina che di fatto è prodotta in Bolivia, in Perú o – appunto – in
Colombia. Passa per il Messico e dal Messico passa ancora via terra negli Stati Uniti
e via mare, per esempio, o via aerea nell’Africa occidentale. Fino a quando non si
comprenderà l’essenza di questa catena criminale, non si riuscirà a far molto.