Stragi in Siria: la condanna del Papa. Il commento del nunzio a Damasco
Il Papa, insieme a tutta la comunità cattolica, esprime “una ferma condanna e la commossa
vicinanza” alle famiglie delle vittime dei “tragici attentati" che giovedì "hanno
insanguinato le strade di Damasco”. Lo riferisce il direttore della Sala Stampa della
Santa Sede, padre Federico Lombardi. “Questi attentati – sottolinea il portavoce vaticano
- dovrebbero spingere tutti ad operare una svolta per un rafforzato impegno nel dare
attuazione al Piano Annan, che è stato accettato dalle parti in conflitto. Gli attentati
attestano inoltre che la situazione in Siria richiede un impegno congiunto e deciso
da parte di tutta la comunità internazionale perché si ponga in atto quel Piano e
al più presto siano inviati altri Osservatori. È sempre più attuale – conclude padre
Lombardi - l’appello formulato dal Santo Padre il giorno di Pasqua: Occorre intraprendere
senza indugio la via del rispetto, del dialogo e della riconciliazione”.
Intanto
nel paese sarebbero oltre 10 i siriani uccisi dalle forze lealiste in varie parti
della Siria. Secondo gli attivisti tra le vittime vi sarebbero anche due bambini.
La tv di regime dà inoltre notizia di un mega-attentato sventato ad Aleppo, le forze
di sicurezza avrebbero ucciso un possibile kamikaze mentre era a bordo di un’autobomba,
pronto a farsi esplodere. Continua nel frattempo la pressione dell’Ue su Assad, lunedì
i ministri degli esteri dell’Unione dovrebbero decidere nuove misure restrittive.
Ma
torniamo alla dichiarazione della Sala stampa vaticana nella quale p. Lombardi conferma
la vicinanza del Papa al popolo siriano all’indomani dei gravi attentati di giovedì.
Adriana Masotti ha sentito il nunzio apostolico a Damasco, mons. Mario Zenari:
R. – Il Santo
Padre, costantemente informato sulla crisi e il dolore del popolo siriano, ha espresso
più volte questa vicinanza sia negli appelli fatti all’Angelus, sia nei messaggi –
natalizio e pasquale – e in altre occasioni. Il Papa è vicino a questa gente che soffre
e rinnova ancora l’appello pressante a risolvere questa crisi attraverso il dialogo
e, come condizione, prima di tutto, fa un appello forte alla cessazione della violenza.
Purtroppo vediamo i villaggi siriani continuamente insanguinati e, purtroppo, come
si sa, questo sangue chiama altro sangue. Quindi occorre rompere, ma decisamente,
con l’aiuto della comunità internazionale, rompere questa spirale della violenza.
Purtroppo questa carneficina ha gettato tutti nel dolore e nella costernazione, perché
non si sa più cosa pensare. C’è veramente un’aria, una cappa di piombo che pesa su
Damasco. Vogliamo sperare che la comunità internazionale, anche dopo questo triste
episodio, prenda ancora più decisamente in mano la situazione e appoggi quella che
per il momento è la soluzione più opportuna: il piano di Kofi Annan.
D. – Nella
dichiarazione della Sala Stampa vaticana si dice che questi ultimi attentati dovrebbero
spingere tutti ad un rafforzato impegno nel dare attuazione al piano Annan, e anche
lei sottolinea che questo piano è l’ultima spiaggia, l’ultima ancora di salvezza...
R.
– Io direi, prima di tutto, che la comunità internazionale non lasci cadere le braccia.
Si nota alle volte un po’ di stanchezza qua e là. Certi Stati hanno i loro problemi,
hanno le elezioni, hanno problemi finanziari e può succedere che, alle volte, questo
slancio di sostegno venga meno. Direi che questo è il momento di non demordere da
parte della comunità internazionale e di riprendere lo sforzo, perché purtroppo credo
che la Siria da sola non potrà uscire da questa crisi. Questo piano di Kofi Annan
sinora è un piano che può dare una certa speranza di successo, perché è sottoscritto
da entrambe le parti in conflitto, essendo sigillato dalla comunità internazionale
e dal Consiglio di Sicurezza. Quindi ci si dovrebbe aggrappare ad esso – le parti
in conflitto e tutti quanti – affinché abbia un certo successo o almeno si possa cominciare
a vedere qualche passo nella cessazione della violenza e a portare le parti al tavolo
dei negoziati.
D. – Sappiamo che in Siria continuano ad arrivare armi. Fermare
questo commercio potrebbe già portare a qualche risultato...
R. – Anche qui
la comunità internazionale deve sentirsi impegnata a fermare un eventuale traffico
di armi, perché è chiaro che se arrivano le armi, arriva la violenza e quindi arriva
il sangue. Bisogna cercare quindi una soluzione negoziata di questo conflitto. Vorrei
anche chiudere, per non finire sotto questa cappa di piombo sotto la quale viviamo
in questi giorni, dicendo che bisogna cercare la speranza cristiana. Siamo nella città
di Damasco, la città dove il giovane Saulo è stato convertito dalla luce di Dio. Dobbiamo
avere fiducia in un’arma che è molto potente e che è l’arma della preghiera, l’arma
della grazia di Dio: che possa toccare il cuore di tanta gente, di tanti persecutori
dell’immagine di Cristo, perché ogni uomo porta in sé l’immagine di Dio. Quindi, che
con quest’arma della preghiera, la comunità cristiana possa ottenere questa grazia
del Signore: la conversione di coloro che trafficano armi, che hanno progetti di sterminio,
di persecuzione e che possano sentire questa voce di Dio “Perché mi perseguiti?” In
fondo, ogni uomo, ogni donna, ogni bambino porta questa immagine di Dio, che deve
essere rispettata al massimo.
Del dolore e sconcerto della gente ci parla il
padre gesuita Paolo Dall’Oglio, fondatore del Monastero siriano di Deir Mar
Musa, raggiunto telefonicamente dalla collega del programma francese della nostra
emittente, Mathilde Auvillain:
R. - Sicuramente
la società locale è nuovamente sotto shock. Abbiamo ricevuto telefonate da parte di
molte persone, sia per assicurarci che stavano bene anche se toccate ma in modo non
grave dall’evento, sia per chiedere informazioni. D’altra parte il quartiere dove
sono avvenuti gli attentati è vicino ad un quartiere che conta una grande presenza
cristiana. Tutta la popolazione è sotto shock, e tutti si chiedono quale sia la logica
aberrante che si nasconde dietro queste azioni più che condannabili. Naturalmente
non hanno niente a che vedere con qualunque obiettivo di sviluppo e riforma della
società locale, ed è impossibile allo stato delle cose, capire chi si nasconda dietro
queste esplosioni.
D. - Il capo degli osservatori dell’Onu, Robert Mood, ha
chiesto aiuto alla comunità internazionale...
R. - In un certo senso la collettività
internazionale, quindi i Paesi di questa regione, per interessi regionali globali,
si sono interessati alla Siria in un modo che certamente non ha aiutato, che radicalizza
le posizioni e porta ad uno scontro più violento. Quindi in un certo senso si potrebbe
anche dire: “Lasciateci in pace”. Ma sotto un altro punto di vista, sono perfettamente
d’accordo con il generale Mood. Io ho sempre chiesto nei mesi scorsi che la collettività
internazionale esprimesse una responsabilità intera, completa, nei confronti di questi
eventi. La Siria è diventata il ring di un pugilato regionale pericolosissimo e quindi
la collettività internazionale deve esprimere una solidarietà responsabile ed efficace.
La scelta degli osservatori disarmati dell’Onu è giusta, ma non siamo ancora a 300;
e 300 sono pochissimi. Qui c’è bisogno di un lavoro capillare con altissima capacità
investigativa, per garantire ai siriani, da un lato, una vera e propria libertà di
opinione, di espressione, e di manifestazione e, dall’altro, di lavorare per estirpare
la violenza terrorista nel Paese da qualunque parte essa sia espressa.
Il Patriarca
melkita Gregorios III Laham parla di “barbarie senza precedenti” e lancia un appello
perché “il mondo dica basta”. Anche la cattedrale melkita è stata danneggiata dalle
esplosioni a Damasco. Gli osservatori Onu continuano il loro lavoro mentre la popolazione
è spaccata: è quanto, al microfono di Fausta Speranza, racconta Cristiano
Tinazzi che ha appena lasciato la Siria:
R. - La missione
degli osservatori viene percepita in modo positivo, ma al momento siamo ancora sui
100-120 osservatori. Bisognerà aspettare la fine del mese per averne 300 sul territorio
e quindi per vedere quanto e come si riuscirà poi a monitorare la situazione in tutto
il Paese e a far mantenere il cessate-il-fuoco. La volontà delle Nazioni Unite è chiara:
comunque gli osservatori non tornano indietro! Certo è che la situazione adesso non
è tra le migliori, soprattutto nella zona di Dara, per quello che sono riuscito a
vedere: a Dara ho visto una forte presenza di militari, anche molto giovani, soldati
di leva, armati pesantemente, con mitragliatrici pesanti, come se dovessero affrontare
una guerriglia; ad Homs, invece, gli ultimi armati che si trovano ancora in alcuni
quartieri sotto il controllo dei ribelli finiranno presto – credo - di combattere…
D.
- Quindi ad Homs la gente si è arresa?
R. - Diciamo che Homs è chiusa in un
sacco: tutte le vie di accesso sono controllate; hanno problemi di rifornimento. La
città è disabitata. Ci sono alcuni quartieri dove ancora ci sono combattimenti: anche
lì ci sono le Nazioni Unite, ma non possono fare niente se non rilevare le violazioni
del cessate-il-fuoco, che chiaramente vengono da entrambe le parti. La novità è che
in tante zone i mezzi pesanti non si vedono. E’ chiaro che se gli osservatori dell’Onu
passano e poi non passano per tre giorni, i siriani hanno tutto il tempo di far riuscire
i carri armati dai posti dove erano stati nascosti.
D. - Che cosa dici della
disperazione e della preoccupazione della gente?
R. - Da quello che ho capito,
nel poco tempo che sono riuscito a rimanere - soltanto pochi giorni - ho trovato una
popolazione divisa: molti hanno appoggiato e appoggiano la sollevazione, soprattutto
tra i sunniti, ma molti non appoggiano questo tipo di sollevazione, una sollevazione
che è poi diventata armata. Condividono le richieste, le istanze di maggiore democrazia
e il riconoscimento dei diritti civili, ma non accettano in nessun modo la lotta armata
e questo soprattutto da parte delle minoranze, come quella cristiana, che si trovano
nel Paese. Questo sta portando quasi a una scissione all’interno del Paese.